Capitolo 1
Milano, mercoledì 11 aprile, 2006. Ore
20
Laura
era seduta davanti al portatile, quando un breve suono le annunciò un nuovo
messaggio di posta.
Continuò
nelle sue occupazioni. C’era tempo per leggerlo. Non desiderava essere distratta,
perché stava preparando le prossime prove del “Romeo e Giulietta”. Voleva
essere accurata e precisa e non tralasciare alcun dettaglio perché le ultime
volte erano state poco attente a causa delle molte imprecisioni degli
interpreti e anche, doveva riconoscerlo apertamente, dell’allestimento della
scena. Era risoluta che questo non si ripetesse più in futuro, dato che questo
le provocava tensioni e stress correggere in continuazione gli interpreti e
cercare la risistemazione della scenografia quasi brancolando nel buio. Era ben
conscia che queste ansie nervose non erano il toccasana per la sua malattia,
col rischio sempre latente di un attacco improvviso di panico senza avere la
certezza di padroneggiarlo. Nessuno lo sapeva perché era riuscita sempre a nasconderlo.
Era
così intenta nel lavoro che ben presto si dimenticò del messaggio arrivato. Non
le tornò in mente nemmeno dopo avere terminato le note operative per la prova
generale del giorno seguente.
Si
allungò sulla poltrona per rilassarsi. Aveva lavorato intensamente per molte
ore e voleva scaricare il nervosismo accumulato. Ripensò alla giornata appena
trascorsa, agli imprevisti in scena e agli eventi successivi, che erano
riusciti a stemperare tutto lo stress immagazzinato.
Sì,
c’era stato un piacevole e sorprendente fuori programma, che l’aveva lasciata
di buon umore, come difficilmente le era accaduto negli ultimi anni.
La
vita familiare non era eccitante, tanto da indurla a gettarsi a capofitto nel
lavoro, trascurando marito e figlia. Sentiva dentro di sé un rancore sordo, un
distacco da quella esistenza che le andava stretta. Ormai da moltissimo tempo
non aveva rapporti col marito e non desiderava averne nemmeno con altri uomini.
Si era concentrata solo sulla sua persona, gli altri non esistevano.
Rifletteva,
quando un nuovo segnale le interruppe i pensieri. Altri messaggi erano
arrivati.
Si
riscosse, aprì il programma di posta e cominciò a leggerli.
La sua
attenzione cadde su quello inviato da Silvia.
Mia Laura,
so che non posso chiamarti o scriverti
un messaggio, con le parole che vorrei. Ho bisogno di dirti ancora che mi manca
il tuo abbraccio. Non credevo fosse possibile quanto abbiamo vissuto oggi.
Parlavamo del teatro, come sempre, della teoria e della sua carnalità, del
poter essere in scena il traditore e il bambino, e ci siamo trovate vicine nei
sensi e nelle parole, sempre più in profondità, fino alle corde inespresse
dalla mente. Già, le corde inespresse, come dici tu. Non sapevo cosa sarebbe
successo, non ho pensato, ti ho solo desiderata e mi sono lanciata nel vuoto
avvicinandomi a te, portata da non so quale forza. Sì, lo so quale forza, ma ho
paura di dirtelo. «Sulle ali leggere dell’amore ho superato queste mura: non ci
sono limiti di pietra che possano impedire il passo all’amore, e ciò che
l’amore può fare, l’amore osa tentarlo. Ecco perché i tuoi parenti non mi possono
fermare…» Ecco cosa dice Romeo. In scena interpreto con tutto il mio cuore
Nutrice, ma avrei voluto essere Giulietta, e tu lo sai. E mi innamoravo sempre
di più vedendoti insegnare a Giulietta come muoversi in scena. E io, Nutrice,
dovevo portarla via, ma in realtà l’assecondavo nel suo rubare un attimo per
godere ancora della vicinanza del suo giovane amore. E ora sono io, forse, quel
giovane amore… Amore. Parola grande e infinita, così difficile da pronunciare
per chi ne conosca il peso. Come sempre con te perdo il filo dei pensieri, ma
forse mai come ora lo ritrovo. Oggi ti ho sentita, finalmente. Ho compreso che
non è solo un mio delirare, vano. Che ci sei anche tu, a dibatterti in questo
sentirci, che ora è di entrambe, a non volerlo accettare del tutto, ma a percepirlo
sempre più forte crescere dentro. La tua bocca, Laura, il tuo respiro, la tua
pelle. Avrei pianto tra le tue braccia, ma le lacrime non mi sono uscite. Poter
piangere tutta la mia sofferenza tra le braccia di chi sente, capisce, conosce
il mio cuore. E i tuoi occhi non erano asciutti oggi, dopo che ci siamo
strette, e finalmente baciate, delicatamente, mentre le braccia si stringevano
quasi ancorandosi al corpo dell’altra per unirci in un bacio vero. Ci siamo
aggrappate l’una all’altra in quell’immenso bisogno di noi. Ho imbevuto la mia
bocca, le mie mani di donna nella tua essenza. Ho sentito, come un lampo
dentro, il tuo gridare con me. Con me. Con me. Accucciata sul tuo piccolo seno,
quasi da adolescente, mi sono colmata del tuo sorriso, del tuo tenermi con te.
Poi la tua voce. Per me è un canto. Mentre mi accarezzavi il viso mi hai
parlato. Hai ragione, sai. Io lo so. E io posso stare in un angolo, felice se
rubiamo un’ora per noi. Mi basta sentire che non è solo desiderio, non è follia
quella che cantava oggi nei tuoi occhi.
Ti mando un’immagine di noi, un
fiore rosso.
Silvia
Laura
ripercorreva con la mente quanto era successo nel pomeriggio, risvegliata dal
messaggio appena letto.
Di
certo quell’incontro fortuito e appagante con Silvia, la sua allieva, aveva
cambiato il volto alla giornata.
Le
prove erano state un disastro. C’era tensione tra loro e nessuno sembrava
prestare attenzione ai dettagli. Tutti sembravano presi da altri pensieri,
svagati come se la primavera li avesse svegliati dal sonno invernale. Aveva
dovuto urlare e riprendere mille volte Giulietta, che sembrava avere la mente
troppo deconcentrata e poi Romeo che era troppo caustico e pungente, per non
parlare delle scene, tutte approssimative ed imprecise. Sapeva di avere delle
responsabilità nel caos generale con le note che non avevano saputo indicare al
gruppo la strada da seguire, e per giunta con così poco tempo a disposizione per
la messa in scena del saggio.
Ricordava
che al termine si sentiva nervosa ed eccitata allo stesso tempo, un miscuglio
indefinito di sensazioni che avrebbe avuto la necessità di essere placato.
«Nel
pomeriggio al termine delle prove ho dato un passaggio a Silvia. Abbiamo
cominciato a parlare di teatro, di Romeo e Giulietta, di loro e delle
aspettative della ragazza. Durante il tragitto siamo rimaste incantate dal
tramonto, tra nuvole rossastre e squarci di sereno, dopo molte giornate uggiose
e piovigginose, fermandoci in un viottolo appartato per osservare lo
spettacolo. Non so chi abbia cominciato, se per gioco o per convinzione, ma le
nostre mani hanno intrecciato un balletto sui corpi. E ci siamo trovate a
baciarci furiosamente divorate da una passione che non ho mai creduto di possedere.
E’ stato bellissimo quanto spontaneo il nostro stringerci e accarezzarci. Per
quanto siamo rimaste lì a stimolare a vicenda i nostri sensi, non lo so, perché
ho perso la percezione del tempo. Però ricordo che le ombre stavano calando
rapidamente. Ci siamo ricomposte prima che io l’accompagnassi a casa. Le
sensazioni di gioia e piacere mi hanno accompagnato fino a questo momento. Ora
sono state risvegliate dalla lettura di questo messaggio».
Chiuse
gli occhi per riassaporare la percezione di benessere che aveva provato qualche
ora prima.
Ripensandoci
in questo momento, credeva che quelle emozioni fossero state sopite per sempre.
In realtà non era vero.
Capitolo 2
Laura amava
il suo lavoro, al quale dedicava molto tempo, seguendo una piccola compagnia
teatrale, che girava quasi esclusivamente per la regione. Aveva iniziato con
altri colleghi due anni prima un corso di recitazione per insegnare a giovani
aspiranti attori come muoversi e parlare in scena. Stavano preparando il saggio
che avrebbe concluso il secondo anno: un’opera impegnativa sia per
l’interpretazione, sia per la scenografia.
Si
riscosse dal leggero torpore nel quale era caduta sotto l’incalzare dei ricordi
e vide riflessa nello specchio dietro il monitor una donna non più giovane.
Anzi a osservare bene, notava le prime tracce che il tempo stava lasciando nel
suo fisico: qualche filo bianco annidato nei capelli castano scuri appariva
beffardo. Gli occhi azzurri sembravano spenti per la tensione accumulata in queste
settimane, ma forse era solo l’effetto dell’oscurità della stanza. Scosse la
testa come per scacciare questi cattivi pensieri.
Si
appoggiò allo schienale della poltrona, intrecciando le mani dietro la nuca, e rifletté
su quanto era avvenuto nel tardo pomeriggio.
“Silvia
è una ragazza dolce e sensibile, che racchiude in sé qualche mistero e un
terribile desiderio di affetto. E’ giovane, troppo giovane. Non cessa un attimo
di guardarmi e pende dalle mie labbra. Sto commettendo un errore incoraggiando
il suo amore verso di me? E’ giusto questo mio comportamento? Non so nulla di
lei, né della sua famiglia. Sembra un piccolo animale selvatico, schivo e
timido, pronto a nascondersi nel folto della foresta al primo accenno di
pericolo”.
Laura
provava quasi un rimpianto che la ragazza fosse troppo giovane per un rapporto
serio tra loro. Le pareva che si fosse risvegliata dopo un lungo letargo un
aspetto della sua personalità, che era rimasto latente e nascosto in tutti
questi anni e del quale non aveva afferrato la vera natura.
Andò
indietro di due anni nel ricordare il primo contatto, avuto con Silvia durante
lo stage iniziale. Le tornò nitida l’immagine di quando aveva dovuto
massaggiarla per sciogliere la tensione che aveva nel corpo, come si fa con la
persona amata.
Quel
massaggio le aveva trasmesso un brivido profondo, a cui non aveva prestato
subito attenzione, sbagliando a non interpretare nel modo corretto quel segnale
inequivocabile.
Laura
era una donna sposata con una figlia ventenne, più o meno dell’età di Silvia.
Col pensiero tornò a quando aveva all’incirca gli stessi anni, perché a solo
venti anni si era sposata con Mattia. Rifletté che forse era stata troppo
frettolosa questa scelta. Però si era innamorata di lui, un ragazzo alto dai
capelli castano chiari, quasi rossi, brillante e disinibito, fin dal primo
istante, quando si erano conosciuti tra i banchi di scuola.
“Ero
timida e bruttina per via dell’acne, che mi deturpava il viso” si disse,
rivedendosi in un ricordo molto lontano nel tempo. Si domandò se quello era
stato vero amore o solo innamoramento. Tralasciò la risposta, mentre proseguì
in quel flashback ormai sbiadito e consunto dalle circostanze successive.
Si
chiese come era riuscita a fare breccia nel cuore di quel ragazzo, adorato e
inseguito da tutte le ragazze del Liceo e non solo da loro.
Ricordò
che era ricercatissimo e aveva sempre intorno a sé nugoli di coetanee, che
smaniavano per lui. Mattia frequentava la seconda liceo, mentre lei solo la
quarta ginnasio. Adesso la domanda era come aveva potuto notare lei, neppure
bella o affascinante, tra quel branco di ragazze, più vecchie e smaliziate di
lei.
La
nuova ondata di ricordi la sommerse, mentre ricercava le motivazioni di questo suo
scavare dentro di sé.
“Forse
sono stati gli avvenimenti del pomeriggio a scatenare tutto questo?”
Laura
stava ripercorrendo un pezzo della sua vita, mentre un pizzico di tristezza e
di nostalgia le stava offuscando la vista, perché erano dolorosi e dolci allo
stesso tempo. Aveva creduto di averli seppelliti per sempre cancellandoli dalla
mente ma evidentemente si era sbagliata, perché come una concatenazione logica
li aveva fatti riaffiorare e adesso erano lì impietosi a pretendere il
pedaggio.
Quando
si iscrisse alla quarta ginnasio, che le aprì le porte alle superiori,
quell’anno era stato molto travagliato tra scioperi e assemblee studentesche
che avevano costellato quella stagione di rivolte studentesche. Ricordò
nitidamente quel pomeriggio, quando fu indetta un’assemblea al Liceo Classico
Monti per fissare l’ennesima manifestazione, una delle tante di quell’anno tormentato.
E rivide la scena quando senza nessuna premeditazione era finita di fianco a Mattia.
“Ciao”
mi disse con calore stringendomi la mano.
Lei diventò
rossa per l’emozione e balbettò un «Ciao» appena sussurrato.
“Non
ti ho mai vista alle assemblee. Sei nuova?”
“Beh!
no.. si.. in verità degli scioperi non m’importa nulla. Però ..” riuscì appena ad
accennare con la voce rotta dall’emozione, perché questo ragazzo ambito da
tutte noi le stava parlando.
Si
guardò intorno alla ricerca di qualche compagna per mostrare Mattia come un
trofeo. Poi però si concentrò su di lui, perché le interessava solo la sua
vicinanza e ascoltare quello che le avrebbe detto.
“A
dire il vero ..” cominciò prendendomi la mano senza lasciarla un istante.
“Nemmeno a me importa molto di questo sciopero che ritengo inutile. Infatti vedo
solo gente annoiata che non aspetta altro che sgusciare fuori per prendersi un’altra
giornata di vacanza, a parte il gruppetto che guida il branco. Che ne dici se
filiamo in giardino a proseguire la chiacchierata senza essere disturbati?”
Lei
annuì perché era venuta unicamente per osservare come si svolgeva un’assemblea
studentesca. Era la prima volta che vi partecipava e dello sciopero non gliene
fregava nulla. Così senza farsi notare erano sgusciati fuori nel giardino.
Seduti
sotto un albero Mattia le chiese come si chiamava, perché fino a quel momento
avevano parlato come se fossero amici di vecchia data..
“Laura”
rispose pronta e rinfrancata.
“Mattia”
replicò stringendomi le spalle.
Disse
tra sé e sé «lo sapevo», accettando quell’abbraccio inaspettato, che le aveva
provocato una scossa.
Nel
ripercorrere quel ricordo nelle pieghe della mente, rifletté col senno del poi,
se fosse stato un autentico colpo di fulmine oppure una banale infatuazione
giovanile poco ponderata. A quel tempo aveva pensato che aveva trovato il
grande amore, quello con la a maiuscola. Però adesso era convinta del contrario:
una semplice scuffia da adolescente immatura che sognava di trovare il mitico
principe azzurro.
“Se
avessi ragionato un po’ più freddamente, probabilmente la mia vita avrebbe
preso una piega differente” disse ad alta voce come per rimproverarsi di quella
scelta di vita.
Da
allora non si erano più lasciati. Nemmeno adesso che i rapporti erano talmente
deteriorati da scambiarsi a malapena la cortesia di un saluto. All’università
Mattia bruciò le tappe, laureandosi in leggero anticipo. Immediatamente dopo si
sposarono senza aspettare di essere più consapevoli del passo che stavano
intraprendendo.
Ripensandoci
adesso col senno del poi, si rendeva conto che non era pronta per quel passo
tanto importante, affrontato con troppa disinvoltura. Riflettendo si rese conto
che forse non era nemmeno adatta al matrimonio, come aveva scoperto quasi
subito dopo.
Laura
era giunta a questa considerazione, scorrendo i primi tempi del matrimonio e
alle situazioni che si erano sviluppate. Così riprese a ragionare ad alta voce.
“All’inizio
non sapevo cucinare e nemmeno come tenere una casa. Un vero disastro! Se Mattia
non fosse stato così paziente, avrei passato le mie giornate a piangere! Dovevo
frequentare l’Università, preparare gli esami, cucinare e stirare. Alla sera mi
addormentavo per la stanchezza. Quante volte mi ha portato nel letto e
spogliata, perché mi ero assopita sul divano davanti al televisore. Al ritorno
dal viaggio di nozze per alcuni mesi non abbiamo avuto rapporti, perché ero
talmente stanca e stressata, che prendevo sonno durante i preliminari”.
Però non
comprendeva come lui avesse potuto sopportare tutto questo: forse il suo era
vero amore, forse aveva un’amante segreta, forse si sentiva in debito verso di
lei. O forse niente di tutto questo. Però riprese quasi subito a riflettere su
quello che era successo in quegli anni.
“Dopo
un paio di mesi Mattia aveva deciso di aiutarmi in casa per avere più tempo per
la nostra intimità. E’ stato provvidenziale perché ormai ero sull’orlo di una
crisi esistenziale”.
Le
avevano sempre detto che i primi anni di matrimonio sarebbero stati i più belli
ed emozionanti, ma in realtà per lei erano diventati un incubo, come ricordava
con angoscia. Un paio d’anni dopo, tra momenti felici e altri più cupi, era
riuscita a laurearsi e a ritrovare un equilibrio precario tra depressione e ricerca
della propria identità. Erano stati momenti angoscianti da superare. L'impatto
delle circostanze aveva fatto sì che lentamente aveva cominciato a provare odio
verso il matrimonio, la casa e tutto quello che ruotava intorno a questo mondo.
Si sentiva in gabbia senza riuscire a fuggire dalla condizione nella quale si
trovava.
L’amore,
o quello che aveva creduto che fosse, verso Mattia era scemato giorno dopo
giorno trasformandosi dapprima in freddezza, poi col tempo in rancore. Lui
aveva tentato di ricucire lo strappo, ma era stato tutto inutile. Identificava
in lui tutti gli uomini che le apparivano solo degli egoisti pronti solo a far
sesso e per questo non era stata capace di perdonargli il fatto di averla
sposata.
Per
scacciare queste sensazioni si era allontanata fisicamente e psicologicamente
dal marito e da tutte le incombenze legate alla casa, immergendosi sempre più
nel lavoro che la portava a stare lontana da questi fantasmi.
Il
colpo di grazia era stato la nascita di Michela, che non era stata voluta da lei,
ma da Mattia. Questo nuovo ricordo la indusse a riprendere il filo del discorso
con se stessa.
“Speravo
di non avere figli, anzi lo desideravo con tutto il cuore. Quindi pretendevo di
avere rapporti protetti, non potendo prendere la pillola. Però è successo lo
stesso a venticinque anni e fu per me un trauma che ha minato per sempre il mio
equilibrio interiore”.
Non lo
aveva mai perdonato, tanto che i loro rapporti dopo la nascita sono diventati
sempre più freddi e radi fino a essere inesistenti. Aveva amata Michela senza
trasporto, per lei era rimasta sempre un’estranea.
“Quante
lacrime ho versato di nascosto. Quante volte avrei voluto che non fosse lì”
ricordava in questi momenti.
Non
aveva mai confessato a nessuno l’avversione verso la figlia, anzi si sforzava
di dimostrare pubblicamente tutto il suo affetto.
Michela
aveva avvertito questa sensazione di risentimento e si era legata profondamente
al padre. Di questo ne era stata consapevole a quel tempo, ma tutto sommato non
le era dispiaciuto, perché intimamente non avvertiva quell’affetto materno del
quale aveva sempre sentito parlare.
Ricordava
che, quando la figlia aveva avuto i primi innamoramenti, si confidava col padre
anziché con lei, che si considerava estranea ai problemi da adolescenti e che
aveva fatto di tutto per evitare di esserne coinvolta.
Era
stato Mattia che le aveva spiegato come sarebbe diventata donna, quali rapporti
avrebbe avuto coi compagni e quali precauzioni doveva prendere.
Lei
invece era stata assente in quel periodo delicato di Michela durante il
passaggio da bambina a ragazza.
Michela
ne aveva sofferto molto, anche senza dimostrarlo apertamente. Ne era
consapevole anche se non avvertiva alcun
senso di colpa.
“Non
sono stata una buona madre. Non volevo avere figli, perché ero terrorizzata dai
nuovi sacrifici che mi aspettavano. Così ho perso sia il marito, sia la
figlia”.
In
effetti non aveva fatto nulla per tentare di ricucire le lacerazioni tra lei e
Mattia. Aveva preferito lasciare che la situazioni diventasse inconciliabile
senza alcun rimorso, come se avesse voluto vendicarsi di un torto subito al
momento del matrimonio.
Una
lacrima scese sul viso di Laura.
Capitolo 3
Milano, venerdì 13 aprile, 2006. Ore 9
Mattia
era, come al solito, nel suo ufficio, posto nel cuore di Milano. La stanza
ampia e luminosa di forma quasi quadrata era arredata con gusto. A lui piaceva
circondarsi di mobilio sobrio ma di pregio e costoso, combinando il moderno con
qualche pezzo di antiquariato.
Si
guardò intorno compiaciuto su come mobili e oggetti era stati mescolati
armoniosamente. Era quasi un rito il suo, quando arrivava in ufficio. Il senso
del bello era parte del suo DNA. Per sua fortuna non aveva mai avuto
preoccupazioni economiche, perché i suoi genitori erano persone benestanti da
molte generazioni. Era cresciuto in un ambiente familiare che gli aveva
trasmesso tra i valori primari anche la sensibilità verso tutto quello che era
elegante e raffinato.
Una
grande scrivania di radica scura era collocata quasi al centro ben visibile a
chi entrava. Era un pezzo unico, costruito per lui su misura da Cassina, come
il mobile basso posto alle spalle della poltrona Frau Forum Collection
President di pelle nera. Mattia aveva visto una fotografia di un tavolo da
ufficio su una rivista di design e aveva deciso di commissionarne la replica ad
un artigiano famoso. Gli era costata un’autentica fortuna, ma l’effetto visivo
era veramente straordinario. Faceva accomodare i clienti su comode poltroncine
in pelle nera, J.J. di B&B Italia.
Un’immensa
vetrata sulla sinistra, attraverso la quale si accedeva al terrazzo, rendeva
luminoso l’ufficio. La vista sui tetti di Milano e sui cortili nascosti era uno
spettacolo insospettabile, come le rare giornate di cielo terso che
consentivano di osservare le montagne quale sfondo naturale della città. In
quelle occasioni sembravano che fossero lì, vicinissime pronte per essere
afferrate con le mani. Un tappeto persiano di lana dell’antica manifattura di
Kum, annodato a mano, stava sotto la scrivania coprendo gran parte del
pavimento di rovere non trattato. Era un autentico pezzo di antiquariato. Più
di un amico scuoteva il capo vedendolo calpestato e offeso da tanti piedi. «Sei
matto,» dicevano «vale una fortuna e tu lo tratti come uno zerbino qualsiasi!»
Però
sorrideva e non replicava. Per lui andava bene così. Quello che gli piaceva
veniva usato senza pregiudizi o timori che si rovinasse. Come per il tappeto.
Un
lampadario Esprit di Venini, tutto cristallo e metallo, pendeva dal soffitto.
Era splendido quando le lampade erano accese, facendone brillare il disegno a
forma di tante stelline.
Mattia
continuò l’esame dell’ufficio come se fosse la prima volta che lo vedesse.
Ruotò lo sguardo verso l’angolo a destra, dove stava un tavolo rotondo di noce
col piano intarsiato a formare una scacchiera e quattro poltroncine stile Luigi
Filippo ricoperte di raso rosso. Tavolo e poltroncine, della prima metà
dell’ottocento, erano stati acquistati per pochi soldi da un antiquario di
Arezzo insieme al quadro di scuola bolognese del seicento appeso sulla parete.
Lui
diceva sempre agli amici «E’ stato un autentico colpo di fortuna!». Dopo un
accurato restauro erano tornati allo splendore originale. Un antiquario, uno
dei tanti che frequentava abitualmente, era arrivato ad offrire oltre 30.000€,
che lui aveva cortesemente e risolutamente rifiutato. Non gli interessava il
denaro, che ne aveva in abbondanza, ma gli oggetti in sé.
“Questi
pezzi li ho comprati col primo bonus dell’IBM e ormai fanno parte della mia
vita. Non riuscirei a privarmene” diceva col sorriso impassibile sulle labbra.
Alle
sue spalle stava appeso un grande quadro moderno dai colori forti, a cui era
particolarmente affezionato. Conosceva l’autore, Gabriele Amadori. Era quasi di
famiglia. Ne aveva diversi, compreso questo, che suo padre gli aveva donato in
occasione del matrimonio. A Laura non piaceva, perché diceva: «Mette angoscia
ogni volta che lo guardo». Fu il primo pezzo con il quale iniziò ad arredare l’ufficio con grande sollievo della
moglie che lo vide sparire da casa. A parte il prezzo della quotazione, che
considerava puramente venale, per lui aveva un valore incommensurabile non
quantificabile.
Mattia
era un professionista di fama e ricercato, senza problemi economici. Le
commesse non mancavano, anzi doveva rifiutarne più d’una perché non sarebbe
stato in grado di garantirne i risultati attesi. Si era dato un codice etico
stringente sulla qualità delle prestazioni professionali. Preferiva un ordine
in meno, piuttosto che eseguire un lavoro approssimativo. Non percepiva la
necessità di assumere tutti i lavori solo per accrescere il conto in banca.
Questo era molto apprezzato dai clienti, come garanzia di professionalità e di
esito positivo. Le richieste fioccava, molto al di sopra delle sue capacità di
soddisfarle.
Il
rito di osservare gli arredi lo faceva tutte le mattine. A volte si ne domandava
le motivazioni, senza trovarne le risposte. Neppure questa mattina le avrebbe
scoperte, perché i suoi pensieri erano concentrati su altri argomenti.
Arrivato
in ufficio verso le nove come al solito, cominciò a riflettere sullo stato
della vita privata, osservando le fotografie di Laura e Michela incastonate in
una cornice d’argento.
Si
sentiva angosciato e voleva meditare su loro, su se stesso e sulla vita
familiare in generale, senza essere distratto da eventi esterni. Sollevò il
telefono e disse: “Anna, per un’ora non voglio essere disturbato”.
Anna
era la storica segretaria, assunta molti anni prima in occasione dell’apertura
dell’ufficio. Aveva all’incirca l’età di Laura, di corporatura minuta, non
appariscente ma ancora attraente per niente sfiorita. Qualche filo bianco era
mascherato dai colpi di sole. Era per Mattia una persona fidata alla quale non
avrebbe mai rinunciato. Quando ebbe il figlio, le disse: «Anna, non
preoccuparti, quando vorrai tornare, il posto rimane tuo».
Lei lo
aveva ripagato con una devozione fuori del comune, forse ne era anche
segretamente innamorata.
“Dottore,“
rispose la segretaria, ma venne interrotta e ripresa immediatamente da Mattia:
“Quante volte te lo devo dire che non voglio essere chiamato dottore?”
“Mi
scusi, Mattia, ma è più forte di me. Le ricordo che alle 10 ha l’appuntamento con il
Dottor Romani. Alle 11 con l’Ingegnere Martini ed a mezzogiorno con Alberto,
con il quale deve fare il punto sul progetto ‘Rischio’”.
“Sì,
quando arriva il Dottore, lo fai attendere nel salotto rosso con una scusa
qualsiasi. Telefona all’Ingegnere per spostare l’appuntamento alle 12. Se non
può, fissane un altro per una giornata diversa. Guarda l’agenda per il giorno
utile. Per Alberto organizza un pranzo di lavoro, al quale desidero che
partecipi anche tu, se non hai altri impegni. Se Alberto non può, prenota
ugualmente un tavolo per noi”.
Anna
rimase in silenzio per un attimo, riflettendo sull’invito al ristorante. Era la
prima volta che le faceva una proposta del genere: “In quasi venti anni di
lavoro non mi ha mai invitato a pranzare con lui, né a partecipare a qualsiasi
riunione. Perché dovrei rifiutare? Oggi non ho nessuna voglia di tornare a casa.
Tanto sarei sola. Quale motivo l’ha spinto a chiedere la mia presenza? Non
riesco proprio a immaginarlo”.
Dopo una
pausa di silenzio per riflettere sull’invito del tutto inaspettato riprese a
parlare.
“Ho
recepito le sue disposizioni. Ben volentieri pranzo con lei. Prenoto al Don
Giovanni o gradisce un altro ristorante?”. Anna cercava di occultare l’ansia
che la proposta le aveva trasmesso.
“Va
benissimo. Quindi niente telefono, né persone. Fino alla 10 e 30 non ci sono
per nessuno”.
Tornò
a guardare le fotografie appoggiandosi al comodo schienale della poltrona.
Adesso
poteva concentrarsi su di sé e ripercorrere un tratto della vita.
Capitolo 4
Mattia
si era laureato in Matematica tra la sorpresa di tutti, amici e professori,
poiché pensavano che avrebbe scelto giurisprudenza o filosofia.
Aveva
una dialettica brillante e pronta, era un leader nato con una mente agile e
pratica. Era in grado di analizzare un problema velocemente trovando le
soluzioni più ingegnose tanto da meritare ammirazione e rispetto da tutti.
Quindi tutti scommettevano che al termine del liceo classico sarebbe diventato
un avvocato ricercato e famoso oppure un grande pensatore. Lui spiazzò tutti
scegliendo la facoltà di Matematica.
Gli
mancavano ancora due esami e la tesi, quando tramite il professore di calcolo
numerico venne contattato da una grande azienda multinazionale, per entrare a
fare parte dell’organico. Accettò l’offerta sotto forma di stage, dopo la
laurea venne assunto in forma stabile.
Affiancava
i responsabili commerciali e del marketing nelle trattative più difficili e
complicate trovando le soluzioni applicative più idonee. Rapidamente bruciò le
tappe scalando nell’azienda posizioni sia in termini economici che
professionali.
Dopo
cinque anni, complice una ristrutturazione, che lo riposizionava nell’ambito
della consulenza, decise di aprire uno studio professionale di informatica.
Complici
gli ottimi rapporti con i responsabili commerciali dell’IBM ottenne da loro
all’inizio diverse commesse, facendo decollare il suo fatturato. Col tempo
imparò a camminare con le proprie gambe perché il lavoro non mancava, anzi era
troppo, tanto da costringerlo alla rinuncia di diversi contratti vantaggiosi
per evitare brutte figure.
Guardava
il viso di Laura e pensava: “Prima del matrimonio era una donna veramente
eccezionale, poi lentamente siamo diventati due estranei. Ormai sono mesi che
ci scambiamo a malapena un saluto. Non so che cosa fa, dove va, chi frequenta.
Forse l’ho trascurata? Forse non ho capito il suo dramma? Dopo qualche anno ha
avuto delle crisi improvvise quando si trovava negli spazi aperti. Dapprima ho
creduto che fossero conseguenze del suo malessere per la casa, ma poi mi hanno
detto che soffriva di agorafobia. Quante volte mi hanno consigliato di
abbandonarla al suo destino, ma io mi sento in debito con lei. Poi è la madre
di nostra figlia. Ho fatto l’impossibile per starle accanto, perché sentisse il
calore della mia presenza, ma gli effetti sono stati insignificanti. Sono
convinto che la nostra separazione avrebbe prodotto su Michela un trauma ancora
maggiore e più pesante di quello sopportato per il disinteresse di Laura”.
Pensava
alla figlia tanto voluta da lui, quanto trascurata da lei.
Ricordava
con dispiacere quando Michela ebbe la prima mestruazione: aveva dovuto lui
incaricarsi di spiegarle, che questo era naturale e che da quel momento era
diventata una donna fertile.
Poi le
spiegò quali attenzioni doveva prendere nei rapporti con gli altri ragazzi e
quali rischi poteva correre, tanto che un giorno disse: “Papà, non capisco
perché sei tu a spiegarmi queste cose e non la mamma. Quando ho provato a
chiarirmi con lei, si è rifiutata di rispondermi! Le mie amiche mi guardano
male, perché dico loro che sei tu a parlarne. Così non discuto più di questi
argomenti o almeno non dico da quale fonte attingo le informazioni sul sesso”.
Mattia
c’era rimasto male e le rispose: “Vedi, Michela, la mamma ti vuole bene, molto
bene, ma non riesce a dimostrartelo. Per questo non riesce a parlarti! Però
devi sapere che tutti e due desideriamo che tu cresca felice e serena”.
Era
stata una bugia che Michela aveva finto di accettare. Il legame tra padre e
figlia divenne da quel momento più stretto, tanto che Mattia divenne il
confidente per tutte le faccende di cuore e non solo quelle.
Quello
che gli faceva male era l’indifferenza di Laura verso la figlia più che il
rapporto freddo e distaccato tra loro. Per quello avevano trovato una forma di
coesistenza che permetteva loro di superare i momenti di crisi, ma non era
riuscito a trovare qualcosa di analogo per far galleggiare le relazioni tra
madre e figlia.
Cercava
di capire dove aveva sbagliato, perché si era dimostrato incapace di inquadrare
la psicologia della moglie.
“Io
riesco a trovare soluzioni ai problemi che mi sottopongono i clienti, ma non
riesco a trovare il capo della matassa della nostra unione. Non sono in grado
di afferrare quali errori ho commesso e perché li ho commessi. Ho sbagliato
solo io oppure abbiamo errato entrambi sovrastimando le nostre capacità o
sottovalutando le nostre debolezze?”
Si
appoggiò con tutto il corpo al morbido schienale della poltrona socchiudendo
gli occhi.
“Ci
siamo sposati troppo in fretta senza ponderare bene i problemi connessi alla
vita di coppia. Ho avuto la presunzione che lei fosse capace di superare tutto,
vivere la nuova realtà con lo stesso spirito che avevo io. Mi sono sbagliato! E
di molto!”
Ponendo
le mani incrociate dietro il capo, cominciò a fissare il quadro comprato tanti
anni prima.
Era di
dimensioni generose e rappresentava la Sacra Famiglia in fuga verso il deserto,
incorniciato da una cornice antica molto austera ma che si coordinava bene col
resto dell’arredo.
Alberto,
l’amico antiquario, diceva sempre: “Quella cornice vale più del quadro e,
secondo me, è dello stesso periodo. Sarà di scuola bolognese del seicento, ma è
una crosta!”
Lui
non era d’accordo. “Sarà anche una crosta, ma mi piace. Anzi mi è sempre
piaciuto fino da quando l’ho visto esposto su quel banchetto, al mercatino
dell’antiquariato e delle robe vecchie di Arezzo”.
Chiuse
nuovamente gli occhi e ritornò con la mente a Laura, alle sue paure, alle sue
fobie.
“Dopo
il viaggio di nozze, che non è stato come immaginavo, non ho capito le sue
paure, le sue difficoltà. Non ho fatto nulla per aiutarla a superare il trauma
di gestire una casa grande e frequentare l’università con profitto. Però forse
il tutto è incominciato durante il viaggio di nozze, anzi prima. Lei aveva
paura a volare e me l’ha detto più volte, ma io le ho imposto quel lungo
viaggio verso la Nuova Zelanda”. Fece una breve pausa e poi riprese il filo del
discorso.
“Quel
viaggio massacrante l’aveva sfiancata fisicamente e psicologicamente. Il giorno
stesso del nostro arrivo ho voluto festeggiare con un rapporto, che lei non
gradiva e ha subito. Poi per venti giorni siamo stati continuamente in giro
senza che io le abbia concesso un attimo di respiro in tutti i sensi. Al
ritorno era distrutta, non ce la faceva più e per mesi non abbiamo avuto
rapporti. Diceva di essere stanca, di non provare voglia e io non capivo il suo
dramma che si consumava sotto i miei occhi ciechi”.
Il
film della sua vita scorreva veloce senza interruzioni, mentre pensava. “Devo
parlare con Laura per chiarire tutto assolutamente. Ho perso troppo tempo
sperando che la situazione si decantasse prima del chiarimento definitivo, ma
ora è venuto il momento e non è più procrastinabile”.
Stava
percependo che la tattica attendista, che aveva tenuto fino a quel momento, non
solo non aveva prodotto frutti apprezzabili, ma aveva trasformato una
situazione rimediabile in una frattura permanente. Quindi era arrivato il
momento delle spiegazioni, anche se questo sarebbe sfociato nella rottura
definitiva.
Si
riscosse dai pensieri che lo opprimevano, guardò l’orologio e sollevò il
telefono: “Anna, è arrivato il Dottor Romani? Lo puoi fare accomodare. Sono
pronto a riceverlo”.
Capitolo 5
Milano, mercoledì 11 aprile, 2006. ore
20.00
Silvia
si appoggiò alla sedia, dopo aver inviato il messaggio. Lo visualizzò ed aprì
l’allegato.
Le
tornò alla mente il nome latino di quel fiore, che il padre le aveva insegnato
tanti anni prima: era Petunia hybrida, una pianta ricca di infiorescenze.
A
pensarci un po’, Silvia conosceva anche il nome scientifico di quasi tutte le
piante che popolavano la casa e il vivaio che il padre, Riccardo, aveva fondato
sulle colline della Brianza.
Sulla
scrivania teneva un bonsai, un acero rosso. Da tanto tempo non gli dedicava un
po’ di cura e solo ora notava che era stato potato. Doveva essere stata Sofia,
perché sicuramente la madre non si sarebbe preoccupata della vita della pianta.
Elisa,
la madre, si era chiusa a riccio in un silenzio quasi assoluto dopo l’abbandono
di Riccardo una decina di anni prima. Si occupava apparentemente delle due
figlie, Sofia la maggiore e Silvia la minore, nella realtà di tutti i giorni,
ma ormai era lontana da loro come da chiunque altro.
La
sorella aveva un carattere molto simile a quello del padre: piena di sole, di
idee, era la figlia più amata, almeno questo appariva agli occhi di Silvia. Lei
in breve tempo accettò la separazione dei genitori, vivendola come un distacco
di lui dalla madre invece che da loro, senza perdere la speranza di vederlo
nuovamente sereno come era sempre stato e come lo ricordava in ogni momento.
Questo
invece non fu accettato da Silvia. Quando Riccardo se ne andò di casa, lei
aveva solo tredici anni e fu un trauma doloroso, che non si cicatrizzò mai. Anzi
divenne una ferita sempre più dolorosa.
Ricordava
quel periodo nero della sua esistenza con rabbia sorda.
“Non
ho mai approvata la separazione tra i miei genitori. L’ho considerato un vero
tradimento che mi ha colpita in prima persona, anche se ogni due settimane l’ho
incontrato trascorrendo con lui il fine settimana. Ma in realtà non era più
come prima, quando allegro e sorridente entrava in casa e mi prendeva in
braccio baciandomi e facendomi volare intorno a lui. Gridavo come per spavento,
ma ero felice di essere là in alto sopra la sua testa”.
Sentiva
una ferita non sanata dalle tante parole che non le erano state dette, perché
era troppo giovane per capire. Come la madre, scelse il silenzio e la
solitudine lasciando dentro di sé quell’amore mozzato e smozzicato a macerare
l’anima. Negli anni aveva imparato a parlargli del nulla, aveva deciso di conversare
solo del vento e della pioggia, aveva racchiuso in sé il desiderio di essere se
stessa, ignorandolo. Raggiunti i diciotto anni, aveva smesso di passare i
weekend con lui. Da quel momento aveva interrotto ogni rapporto. Per lei era
cessato di esistere. Era come se fosse stato morto.
Poi
l’aveva quasi dimenticato o meglio aveva preso la decisione di non pensare più
a lui. Quegli anni dell’adolescenza perduta stavano prendendo altre forme, per
emergere alla luce ora che era adulta.
Piccola,
schiva aveva attraversato il liceo senza che nessuno la notasse. In fondo non
le dispiaceva sparire negli angoli e nell’anonimato. Aveva scelto il liceo
artistico, come la madre. I suoi disegni parlavano al suo posto attraverso i
fogli 50 x 70 di colore avorio: i tratteggi perfetti, il rosso pastoso della
sanguigna. Si era iscritta l’università per diventare una grafica, ma aveva
capito ben presto che non sarebbe approdata a nulla. Percepiva l’irrequietezza
dell’anima, quel senso di astio verso gli uomini, la solitudine coltivata con lo
stesso amore applicato alle piante di casa. Questo distacco dalla realtà
quotidiana le impediva di concentrarsi negli studi, che languivano in attesa di
essere abbandonati.
Aveva
ventuno anni quando incontrò Laura e il teatro. In quel preciso istante tutto
cambiò, assunse altre forme che non aveva compreso prima.
Era
una domenica pomeriggio quando Silvia la vide per la prima volta. Laura aveva
organizzato uno stage gratuito per far conoscere la nuova scuola di teatro che
dirigeva. Ricordava benissimo come fosse stata notata tra gli aspiranti attori,
quando lei si era soffermata per un attimo a osservare i suoi occhi nocciola,
il volto pallido e quel fisico minuto come uno scricciolo. Quello sguardo le
era rimasto impresso come un marchio a fuoco.
Aveva
letto qualche giorno prima un volantino rosso mattone, dove spiccava la foto di
una signora che guidava un gruppo in quello che sembrava un esercizio di
espressione corporea o almeno questa era stata l’impressione visiva. La
catturarono la foto, le espressioni sui visi di quel gruppo di persone. Le era
sempre stato detto che quando disegnava aveva un’espressione concentrata e
serena. Come loro.
Così prese
la decisione di partecipare a quell’incontro di introduzione in un mondo che
non conosceva ma non era nemmeno totalmente sconosciuto. Silvia amava le attività
relative all’arte in generale. Conosceva qualche rudimento di terminologia
tecnica relativa al teatro, essendo cresciuta in un ambiente artistico, ma non
se ne era mai accostata in prima persona come protagonista. Quella poteva
essere l’occasione giusta per entrare nell’ambiente teatrale.
«Il
teatro è letteratura scritta nella carne, nella parola e nel corpo. Per
arrivare ad esprimerci attraverso la parola lavoreremo sulle emozioni, sullo
sguardo, sul contatto. Il teatro senza il corpo sprigiona solo una piccolissima
parte della sua forza. Cercheremo in noi stessi e nel gruppo che si sta già
formando, anche se ancora non potete rendervene conto, l’espressione di quella
forza». Queste erano state le prime parole pronunciate da Laura in quella circostanza.
Non le avrebbe mai dimenticate, perché le erano rimaste impresse nella mente in
maniera indelebile.
Silvia
eseguì con paura mescolata a curiosità gli esercizi di fiducia e di contatto
che servivano a creare il gruppo, a generare aggregazione tra individui
differenti. Non amava guardare fisso gli occhi del compagno, perché le sembrava
violare la privacy di chi le stava di fronte. Mentre l’altro, per la tensione e
il disagio fin troppo evidente che lei trasmetteva, scoppiava a ridere, allora
distoglieva subito lo sguardo, rompendo l’incanto del momento. Comprendeva che l’atteggiamento
non era coerente allo spirito di gruppo, ma sperava col tempo di riuscire a
completare la prova.
Quando
Laura diede inizio alle prove di movimento ad occhi chiusi, Silvia, che si
cimentava in tutti quelli proposti, cominciò a posizionarsi sempre più vicina a
lei, per seguire meglio le sue istruzioni. Ricordò che era appena iniziato
l’esercizio, quando dopo qualche secondo li aprì con l’affanno nello sguardo. Guardò
Laura, che sorrise e le fece cenno di chiuderli nuovamente con fiducia, e così
fece.
Gli altri
movimenti, il sentire opprimente quella perdita dei punti di riferimento,
quella sensazione sconvolgente di assenza corporea erano un bagaglio di
esperienze che rischiava di turbare il suo già precario equilibrio psicofisico.
Silvia però aveva avvertito la mano della sua guida che la teneva saldamente,
le accarezzava il viso, le massaggiava la fronte. Riemerse dal buio con lo sguardo
di chi aveva provato a sfidare se stesso e aveva fallito.
Laura
le disse di sedersi e di aspettare il prossimo esercizio, se si fosse sentita nelle
condizioni di eseguirlo.
“Non
ci devono essere forzature, tutto deve sembrare naturale, anche se questo ti
sconvolge psichicamente” le aveva detto.
“Riuscirò
mai a fare questo?” le chiese osservando il sorriso di Laura che la
rassicurava. E così con grande gioia riuscì a superare quel momento critico.
Ricordò
il giorno del primo esercizio di contatto di gruppo, il calore immenso di tutti
corpi che ormai respiravano all’unisono. Arrivò la sensazione di non potersene
andare, ma per la prima volta provò ad appoggiarsi a quell’intrico di braccia e
gambe senza remore o paure. Percepiva concretamente che lei l’avrebbe protetta.
Si annullò in esso, ascoltando il proprio respiro, e quello dei compagni. Alla
fine dell’esercizio spontaneamente abbracciò la compagna più vicina che l’aveva
sorretta. Cominciò a piangere dopo tanto silenzio.
Lo
stage fu talmente entusiasmante che scelse di iscriversi per le emozioni
ricevute da quella figura che l’aveva avvinta e stregata. Sentiva che non
poteva rinunciare alla sua vicinanza.
Capitolo 6
Silvia
continuava ad osservare il bonsai senza vederlo, aveva lo sguardo perso nel
vuoto e la mente assente che vagava libera senza riferimenti precisi, mentre
attorno a lei calava la notte.
Il
monitor del computer continuava a lampeggiare, l’altoparlante a segnalare con
un bip che un nuovo messaggio era arrivato, ma lei non si curava nient’altro
che dei suoi pensieri, delle sue paure, dei suoi sentimenti, della sua vita.
«Perché
ho cercato Laura? Perché ho voluto avere quelle effusioni intime con una donna?»
Erano
le domande ricorrenti che da molti anni la tormentavano senza una risposta
precisa ed esauriente. Però erano lì e premevano per avere un chiarimento che
tardava ad arrivare.
Perché
odio gli uomini? Perché non voglio avere rapporti con loro? Perché mi sento
appagata solo quando mi tocco il sesso, il seno, quando mi masturbo? Con Laura
è stato meraviglioso. Le sue mani, le mie mani alla ricerca del piacere hanno
donato appagamento e hanno ricevuto passione. Sentivo l’orgasmo salire libero
dentro di me come un urlo liberatorio a lungo represso.
Cercava
la risposta dentro di sé, perché desiderava amare una donna e non un uomo, ma
questa non riusciva a scaturire dalla mente, rimaneva occulta e ignota ai suoi
occhi. Non c’era una spiegazione razionale, perché era stato il suo corpo a
decidere in questo senso e non la mente.
«Avevo
diciassette anni quando persi la verginità con quell’uomo, che aveva molti anni
più di me ed era sposato. L’avevo cercato perché speravo di guarire il mio
malessere verso il mondo maschile. Invece mi ha fatto sentire una puttana, io
che volevo solo sentirmi donna. Lui era distante, non aveva calore, non aveva
tenerezza, mi ha fatto schifo. Se quello era il tanto decantato amplesso, è
stato un fallimento doloroso sia fisicamente sia psicologicamente. Ho provato
solo dolore. Ormai quello che è stato non si può più modificare».
Lui
l’aveva cercata ancora, ma lei aveva risposto che non le interessava proseguire
la relazione. Da allora le sue fantasie contemplavano solo donne. Però si
sentiva intimidita nel farsi avanti e le intenzioni erano rimaste nel limbo dei
desideri. Solo fantasie erotiche cullate nel sonno della notte.
«Perché?»
era il ritornello che frullava nella testa di Silvia.
Provò
a concentrarsi sui motivi di questa inclinazione sessuale e forse qualcosa
stava riaffiorando tra i ricordi. Però non era certa che ne fosse stata l’origine.
Ricordava
vagamente, era un flashback incerto e sbiadito di bambina. Aveva avuto sì e no
cinque o sei anni, quando una notte si era svegliata, perché sentiva delle voci
nella casa. Venivano dalla camera dei genitori. Si alzò silenziosa, perché non
capiva cosa stavano facendo e dicendo. Al buio uscì dalla stanza e si avvicinò
alla porta, che era appena socchiusa. Non si vedeva nulla, ma udiva parole e
rumori.
Ascoltava
dei respiri affannosi e la voce della madre che diceva: “Basta, mi fai male. Ti
odio!” e ne sentiva i singhiozzi, mentre dei gemiti accelerarono per poi
diminuire e cessare. Solo un pianto confuso e un ansare concitato aleggiava
nella stanza mentre era lì ad origliare senza capire cosa stava succedendo. Un
dubbio che si portò dentro di sé per anni fino a quando i genitori non si
separarono.
Altri
ricordi meno confusi le tornarono alla mente.
«Notai che da quella notte mia madre era cambiata.
Non capivo bene come, ma non era più la stessa.
Altre notti finsi di dormire e restai sveglia, ma non sentì mai più
rumori strani provenire dalla loro stanza, ma solo il respiro di chi dormiva.
Di questo non ne ho mai parlato con mia sorella. Alcuni anni dopo
quell’episodio ne ricordo un altro. Una sera la mamma andò a letto da sola e il
papà uscì ritornando il giorno dopo. La mamma era visibilmente furiosa, ma non
litigò o almeno non lo fece in nostra presenza. I miei genitori erano sempre
più distanti tra loro senza però farci mancare l’affetto. Sentivamo che
qualcosa non andava tra loro, ma non ne capivamo il motivo. Ormai eravamo
grandi per percepire il distacco e spesso ne parlavamo tra noi, ma senza
giungere a conclusioni precise. Poi un giorno nostro padre non venne più a casa.
La mamma ci disse che se ne era andato via. La rottura divenne ufficiale e
cominciarono i fine settimana con lui».
Silvia
aveva tredici anni quando decise che aveva portato dentro di sé per troppo
tempo il segreto, mai rivelato a nessuno, su quella sera.
“Mamma,
“chiese qualche mese dopo la separazione dei genitori, “una notte di tanti anni
fa ti ho sentita piangere, mentre papà ansava rumorosamente. Cos’è successo?
Perché piangevi? Non ho mai avuto il coraggio di chiedertelo fino ad ora”.
La
madre la guardò con intensità, deglutì vistosamente e pensò a una risposta per
questa figlia, che le sembrava ancora una bambina, anche se ormai da più di un
anno aveva il ciclo del mestruo regolare.
“Silvia,
devi sapere che marito e moglie hanno rapporti sessuali regolari per soddisfare
il piacere reciproco. Lui la penetra mentre lei sente un gran calore salire
dentro di sé. La vagina si inumidisce per la passione facilitando l’ingresso
del membro dentro di lei. Se però è secca, allora lei prova dolore piuttosto
che piacere. Questo capita quando la moglie non sente lo stimolo sessuale o non
è eccitata nella maniera corretta. Il marito deve capirlo ed evitare il
rapporto, che è fonte di una sensazione molto dolorosa. Quando quella sera
piangevo, tuo padre mi prese contro la mia volontà perché il mio sesso era
secco. Provai dolore e rabbia e piansi per questo. Tuo padre è sempre stato
molto dolce con me, ma quella sera fu violento. I motivi non li conosco, né
sono mai riuscita a conoscerli”.
Silvia
abbracciò la madre, mentre dentro di sé montava una sorda rabbia verso il padre
e gli uomini in genere. Mentalmente promise che non avrebbe sopportato che un
uomo la possedesse contro la sua volontà.
Questo
pensiero e l’obbligo di trascorrere col padre i fine settimana accrebbero un
sentimento di astio verso di lui, mentre osservava la madre che sempre più si
racchiudeva a riccio su se stessa. Però nel contempo, senza che un motivo
valido la spingesse, percepiva sempre più intensa l’attrazione verso le donne
senza che riuscisse a focalizzare cosa era e il perché di questa sensazione.
Quei sentori,
che la portavano alla ricerca di una persona del suo stesso sesso, erano
maturati lentamente giorno dopo giorno finché non si era concretizzata col
trauma della perdita della verginità.
Solo
in quel momento aveva percepito chiaramente che lei non avrebbe potuto mai amare
un uomo, ma solo una donna.
Adesso
tutto era stato risucchiato in superficie, mentre le appariva chiaro che non
era l’effetto di quei ricordi infantili a spingerla verso una persona di sesso
femminile, ma era un fatto naturale.
Lei
sarebbe stata così, anche se i suoi genitori non si fossero separati.
Dopo
quella confessione tra madre e figlia non ci fu più nessun dialogo su questi
argomenti, mentre Silvia voleva crescere in fretta per andarsene da casa,
vivere la sua vita da sola. Con chi? Questo era il suo grande dubbio: con chi?
Con un uomo? No, dopo avere ascoltato il suo istinto. Con una donna? Non lo
sapeva, ma non si sentiva ancora pronta.
Però
continuava a stare in questa casa con la madre ridotta ad un fantasma
silenzioso e la sorella, che sembrava ignorare tutto e vivere felice.
E non
vedeva prospettive immediate come soluzione ai suoi problemi esistenziale o
almeno questo era il suo pensiero.
Forse
Laura, ma forse no.
Comunque
doveva aspettare ancora e l’attesa le metteva tensione, ansia.
Capitolo 7
Brianza, venerdì 13 aprile 2006. Ore 9
Elisa nel
buio della dependance, che aveva eletto come casa, rifletteva sui motivi che
l’avevano trascinata nella condizione attuale. E si domandava cosa aveva sbagliato
nella vita.
Ormai
era più prossima ai cinquanta che ai quaranta e sapeva che era in un’età dove la
bellezza era un optional che contava relativamente poco. Quella era sfiorita
dieci anni prima con la separazione da Riccardo. Era di statura nella media, coi
capelli ricci e scuri. Gli occhi non erano molto espressivi per l’azzurro
chiaro senza luce. Il corpo non era mai stato appariscente, ma adesso
denunciava le offese del tempo.
Era
stata una giornata noiosa. Niente uscite, solo lavoro d’ufficio a scrivere, a
riordinare schede. La sua presenza non era stata notata da nessuno, né uomini,
né donne. Questo non le dispiaceva, ma in un certo senso la irritava. Le
sembrava essere tornata indietro nel tempo, quando frequentava la scuola media.
In
quel periodo della sua esistenza non aveva avuto corteggiatori. Questo l’aveva infastidita
non poco, perché le compagne avevano avuto sempre nugoli di ragazzini brufolosi
intorno e lei sempre sola. Un altro cruccio l’aveva tormentata: il seno, che
era minuscolo, quasi invisibile, mentre le compagne ne avevano in abbondanza,
sempre toccato, palpeggiato dai compagni. Allora non capiva quale era il
piacere di toccare i seni, i glutei, il sesso ed essere toccate, perché non
l’aveva mai provato. E quando lei aveva tentato di farlo su se stessa non aveva
ricavato impressioni tali da comprendere il motivo della gioia delle compagne e
dei compagni.
“Non
che poi sia cresciuto di molto. E’ rimasto sempre di modeste proporzioni”.
Si
toccò il seno e non provò nessuna emozione come allora. Però aveva il vantaggio
che non si era sformato nel tempo dopo due gravidanze.
“Non
so il perché, ma quando penso a me, ritornano sempre questi ricordi. Io provo a
cancellarli, ma loro tornano sempre a galla”.
Il
carattere timido e chiuso non aveva favorito i rapporti, perché i maschi non la
guardavano e dicevano «E’ uno scorfano» come migliore complimento, mentre le
ragazze la snobbavano come inferiore. Iniziò a guardare con maggiore attenzione
al mondo degli adulti che le sembrava più interessante rispetto a quello dei
coetanei. Non aveva mai visto un corpo nudo né femminile né maschile ad
esclusione del suo ancora acerbo di adolescente. Le uniche nudità erano le foto
e giornaletti hard che circolavano numerosi tra i banchi di scuola. I genitori
erano discreti sia nei rapporti di coppia sia nel girare per casa per non
turbare la figlia e non parlavano con lei di sesso. Quello che sapeva l’aveva
appreso dagli altri ragazzi senza comprenderne bene i meccanismi. Tutto questo
le era sembrato macchinoso e poco interessante.
“Mi
sono sempre domandata allora, perché i miei compagni parlavano solo di sesso,
delle posizioni per fare sesso e di quante volte l’avevano fatto. Mi sembrava
qualcosa di nebuloso, avvolto in un’aura di mistero perché il proibito eccitava
le nostre fantasie. Ora capisco che molto era immaginazione e poco era realtà.
Però sicuramente ho immaginato molto anch’io”.
Elisa aveva
fantasticato come poteva essere un uomo nudo nel reale e quali stimoli avrebbe
suscitato in lei. La curiosità venne soddisfatta casualmente a quattordici anni
una sera di fine giugno. Non riusciva a prendere sonno, quando sentì dei rumori
strani provenienti dalla stanza dei genitori. Si alzò e non vista li osservò mentre
nudi andavano nel bagno. Quello che la colpì era il membro del padre perché non
aveva immaginato che potesse essere così grosso e lungo. Tornata
silenziosamente a letto cominciò a sognare confusamente di essere posseduta da
un uomo che stranamente somigliava moltissimo al padre. Alla mattina si svegliò
coi capezzoli turgidi e duri, con le mutandine bagnate e odorose di un profumo
strano.
Continuò
a sognare amplessi impossibili perché non aveva idea in quale posizione una
donna doveva stare durante un rapporto sessuale.
“Ho
anche appagato anche questa curiosità qualche mese più tardi. Ero una ragazzina
che usava molto la fantasia, ma allo stesso tempo voleva che questa si
tramutasse in qualcosa di concreto! Ero sempre alla ricerca di scoprire
qualcosa di nuovo sulla sessualità che in casa era considerato un tabù. I miei
genitori erano all’antica e di determinati argomenti non si poteva parlare. Non
ero soddisfatta di quello che udivo in classe e avevo le mie ragioni”.
Un
giorno sorprese Angela, una ragazza di ventidue anni abitante nel suo
caseggiato, negli scantinati con un uomo. Era sdraiata su un tavolo basso con
le gambe aperte e penzoloni, con la gonna sollevata e gli slip su un piede. Era
sovrastata da un uomo, che identificò come un vicino sposato con due figli.
Angela assecondava i movimenti dell’uomo inarcando la schiena cacciando piccoli
urli di gioia. Lui ansava rumorosamente mentre si muoveva ritmicamente. Rimase affascinata
ad osservare quello che facevano e ad ascoltare rumori e gridolini. Poi
spalancò gli occhi, quando lei inginocchiata prese tra le labbra il pene
dell’uomo.
“Quella
volta mi sono chiesta che gusto c’era in quel gesto. E poi Angela non rischiava
di morire soffocata? Ero allibita perché pensavo che lui rischiasse molto a
causa dei denti. Ovviamente tutti dubbi legati alla mia inesperienza di allora.
Ora mi viene da sorridere a pensarci bene. Ero veramente ingenua. Per quanto
tempo? Non ricordo con esattezza, ma non passò molto comunque”.
Adesso
sapeva come poteva trasformare i sogni nel reale. Sempre più spesso si trovava
bagnata e con quell’odore strano che poi comprese essere gli umori della sua
vagina eccitata dalla vista di Angela e dai sogni notturni.
In
pochi mesi Elisa si era trasformata da adolescente acerba a ragazza attraente. Agli
occhi dei coetanei però era sempre più estranea, sempre più diversa, rimaneva
una bambina.
Si era
iscritta dopo le medie alle scuole superiori. Era attratta dai monumenti
antichi, dai ritrovamenti di reperti e amava il bello. Dotata nel disegno
scelse l'Accademia di Belle Arti. In quell’ambiente meno conformista acquisì
un’aria di mistero e divenne sempre più impenetrabile ed enigmatica, sfuggente
e sensuale. Il corpo emanava un odore mascolino che le donava un fascino tutto
particolare. Gli occhi chiari senza luci si illuminavano nel momento in cui
incrociava un uomo che le piaceva e come un’ammaliatrice catturava la loro attenzione
con il suo sex appeal.
A
sedici anni sembrava più matura della sua età tanto da attirare le attenzione
di uomini adulti o comunque con molti più anni di lei. Però per paura o
condizionata dall’educazione familiare aveva sempre rinunciato a fare sesso. Si
era fermata sempre prima.
“Più
che paura non mi sentivo pronta al grande passo perché non avevo trovato l’uomo
giusto”.
Elisa
ricordava con un pizzico di nostalgia quei momenti lontani una vita e come a
poco a poco era andata a scoprire la propria sessualità.
Quasi
tutte le notti esplorava il monte di venere coperto da pelli soffici e lunghi
per poi scendere con le dita tra le grandi labbra fino all’imene che avvertiva
elastico e morbido. Provava piacere nel sentire quella membrana flettersi
dolcemente sotto la loro pressione.
Ebbe
il primo rapporto a diciassette anni con un uomo sposato di circa quaranta
anni. Lo conobbe in un chiosco dei gelati una sera di luglio, in cui aveva il
ciclo mestruale. Tutti i tavoli erano pieni. Lui stava solitario a gustare una
granita, quando lei gli chiese sfacciatamente se poteva sedersi con lui. Le
piaceva e avvertiva una forte attrazione. Aveva compreso che il momento
fatidico stava per scoccare. Conversarono a lungo, finché si offrì di
accompagnarla a casa. Però prima si diressero verso un boschetto fitto e buio
lungo il fiume, dove lei perse la verginità. Lui fu molto delicato nel
deflorarla tanto che Elisa provò quasi piacere.
Si diedero
appuntamento per la sera successiva e così per quelle dopo.
Ci
sapeva fare, perché la penetrava dolcemente dopo averla eccitata con lunghi
preliminari. Elisa raggiungeva l’orgasmo prima di lui e accoglieva poi felice
il suo membro tra le labbra come aveva visto fare tante volte da Angela. Adesso
capiva come poteva trarre godimento da quel gesto che aveva trovato assurdo.
Adesso si sentiva una donna nel vero senso della parola.
Le
compagne a scuola raccontavano ogni giorno scene di sesso e piaceri inesistenti.
Un giorno Elisa sbottò con quella di loro che più di ogni altra credeva di
esserle superiore: “Si vede che hai fantasia! Racconti di fare sesso completo,
ma in realtà non fai altro che pompini”.
“Sta
zitta,“ le rispose stizzita la ragazza "sei ancora vergine e non hai mai
visto un cazzo!”
"Credi
quello che vuoi" chiuse la discussione Elisa, e se ne andò con un sorriso
e con il suo segreto.
La
relazione durò circa due anni tra alti e bassi, finché non arrivò
all’università, quando incontrò casualmente Riccardo.
Era
alto e slanciato, capelli biondi ed occhi nocciola e non passava inosservato.
Aveva avuto molte relazioni tutte finite nel nulla. Non faticava a trovare una
donna, nubile o sposata, che non finisse a letto con lui. Dopo essersi laureato
in scienze agrarie aveva trovato un buon posto nel consorzio agrario con uno
stipendio dignitoso, che gli aveva consentito di lasciare la famiglia e vivere
da solo. La sua camera da letto aveva visto passare molte persone di sesso
femminile, ma fino a quel momento non aveva nessuna intenzione di sposarsi o
convivere.
Lei
aveva diciannove anni e lui nove di più, quando si scontrarono sulla porta
della Caffetteria del Corso.
“Scusami,“
disse lui un po’ mortificato, “ti ho fatto cadere il dolce. Posso sdebitarmi?”
“No,
grazie“ rispose lei asciutta e risentita, chinandosi a raccogliere la custodia
in cui era racchiusa la torta sicuramente ammaccata.
La
mano di Riccardo sfiorò leggermente il seno di Elisa mentre si chinava per
aiutarla. Un brivido percorse la schiena della ragazza, che alzò gli occhi
verso di lui. Lui la fissava intensamente e lei non abbassò lo sguardo, anzi lo
continuò a guardare in atto di sfida.
Era
annoiata dalla relazione con l’uomo sposato perché si stava trascinando
stancamente dopo la fiammata iniziale. Adesso l’uomo, che stava dinnanzi a lei,
le piaceva, emanava uno stimolo sessuale incredibile. Se glielo avesse chiesto
sarebbe andata a letto con lui immediatamente senza pensarci troppo.
“Quante
volte Riccardo mi ha descritto la prima impressione che aveva ricevuto durante
quell’incontro. Anch’io ho un ricordo nitido. Un uomo biondo che mi ha eccitato
col semplice tocco della mano. Però le parole, che lui non ha detto allora,
sono quelle che ho memorizzato per sempre. «Come bellezza non vale niente, ma
deve avere il fuoco dentro. Ha un’aria di mistero impressionante. Ha una
personalità che ecciterebbe un morto. Un’altra ragazza al suo posto si sarebbe
arrabbiata ma lei è rimasta fredda e decisa»”.
Le
piaceva ricordarle e le davano lo stesso brivido di allora.
“Riccardo“
disse allungando la mano e lei sorrise rispondendo: “Elisa”. Il ghiaccio era
rotto.
“Posso
offrirti un aperitivo per rimediare?” Le strinse la mano con un vigore ed una
passione che suonò nel cervello come un secondo campanello molto più forte del
primo.
“Perché
no!” replicò con un tono più morbido e rientrarono nella Caffetteria.
Presero
a frequentarsi ed a stare sempre più a lungo insieme.
Elisa
chiuse il rapporto con l’uomo sposato e andò a vivere con Riccardo.
I
genitori non furono contenti della scelta, perché a quel tempo convivere non
era visto di buon occhio, ma non poterono opporre resistenza.
Rimase
incinta di Sofia sei o sette mesi dopo, ma non si sposarono subito. Lei voleva
smettere di frequentare l’università e iniziare a lavorare, perché non trovava
più gli stimoli giusti. Riccardo la esortò e la pungolò a proseguire fino alla
laurea in lettere con indirizzo artistico.
“E’
stato un bene, perché ora sarei molto rammaricata. Questa è stata una delle
poche cose buone che Riccardo mi ha lasciato in eredità”.
Lei
aveva un buon talento artistico ed era un’appassionata d’arte. Aveva sperato di
fare l’archeologa, ma ora con una figlia non era certamente la professione più
adatta.
Nacque
poi Silvia, prima che il matrimonio riparatore venisse celebrato col solo rito
civile.
Trovò qualche
tempo dopo un posto presso la soprintendenza della Lombardia, dove lavorava
tuttora. Però si sentiva in gabbia con due figlie ed un marito che ogni tanto
la tradiva, perché tutti i sogni erano svaniti col progredire del tempo.
“Facevamo
quasi tutti i giorni all’amore con grande soddisfazione reciproca. Poi dopo la
nascita di Silvia qualcosa si ruppe tra noi. Io sono cambiata mentre lo stimolo
sessuale per me è diventato una specie di incubo e poi sempre più tiepido”.
Lui
non amava fare sesso in maniera protetta e lei aveva una paura folle a prendere
la pillola od usare lo iud. Quindi a letto cominciarono a litigare perché lui
voleva avere dei rapporti, mentre lei lo respingeva con maggiore frequenza e
decisione.
“Il
terrore, che non sono riuscita mai a confessargli, è stato di rimanere incinta
per la terza volta, perché non sarei stata in grado di superare questo evento.
Quando Silvia mi ha domandato dieci anni fa i motivi del mio piangere una sera,
aveva semplicemente assistito all’ennesimo litigio per un rapporto non
desiderato”.
Con
una punta di tristezza Elisa ricordava l’amore che Riccardo provava per lei.
Però lui al tempo stesso si sentiva tradito dai suoi rifiuti e cominciò a
frequentare altre donne.
La
situazione precipitò finché un giorno le disse che era stanco di lei e se ne
andò.
“Così
finalmente starai in pace a letto!” le disse un po’ acidamente.
Elisa
era diventata silenziosa e chiusa dopo l’abbandono, incattivita con se stessa e
verso Riccardo. La separazione si consumò burrascosamente senza possibilità di
ricucire la relazione.
Adesso
lei viveva nel suo mondo chiuso tra il lavoro e la passione per la fotografia
come se quello che stava intorno scorresse via senza lasciare traccia, analogamente
all’acqua del fiume che fugge verso il mare. Si era inaridita nei pensieri e
negli affetti, senza che qualcosa riuscisse a scuoterla dal suo torpore.
Non
c’era stagione che la trattenesse fra quelle quattro mura, nemmeno pioggia,
neve o sole. Per lei erano le sbarre di una prigione dalla quale voleva evadere
e restare sola con se stessa.
Elisa
chiuse gli occhi per scacciare quelle immagini e quei ricordi dolorosi, che la
tormentavano da ormai dieci anni. Eppure con Riccardo aveva vissuto una parentesi
felice, che lei aveva voluto chiudere dopo la nascita di Silvia.
Se la
relazione era andata in frantumi, anche lei doveva assumersi le sue parti di
colpe.
E con
questi pensieri si addormentò.
Capitolo 8
Ai
primi di aprile Elisa era uscita nel vapore del mattino, già toccato dai primi
raggi di sole, come era solita fare quando non doveva andare al lavoro. Si
diresse in campagna. In poco più di trenta minuti di cammino solitario
raggiunse attraverso un sentiero una collina bassa circondata da vigne. A
quell’ora la radura era silenziosa di voci umane. Spesso la tranquillità del
luogo accoglieva i suoi passi in ogni stagione dell’anno. Era il suo rifugio
segreto.
Elisa
osservava ogni dettaglio. Il fruscio di qualche piccolo animale nell’erba, gli
uccelli che cominciavano i loro canti nascosti tra le prime fronde degli
alberi. Godeva del respiro della collina sul viso, ancorché freddo quella
mattina. L’inverno era finito ma i suoi occhi non erano ancora sazi di
guardarlo.
Amava
il freddo e le dispiaceva che il clima fosse divenuto più mite negli ultimi
tempi, sottraendole in parte la possibilità di ammirare le opere d’arte che la
natura scolpiva nel gelo.
Mentre
camminava, rifletteva sulla situazione di donna e sulle insoddisfazioni che
aveva dovuto subire, osservando la natura ancora assopita che lentamente si
stava risvegliando.
«Sono
stata troppi anni lontana da me. Presa dall’essere gradita ad altri, che
fossero quegli odiosi compagni di scuola, che fossero gli uomini più grandi ai
quali mi sono concessa per comprendere che potevo piacere, che fosse pure
Riccardo, al quale non interessava nulla di me, di come stavo, di come vivevo
la nostra relazione, la nostra vita insieme. Gli uomini credono che i problemi
sessuali nascano in camera da letto e lì vengano risolti. Chissà perché non
riescono a vedere la sofferenza che ci fa chiudere al mondo esterno. Nei primi
anni Riccardo sembrava interessato a me, mi parlava con amore, mi ascoltava. Io
non potevo credere di aver conquistato un uomo così bello, così interessante.
Invece non l’avevo affatto sedotto. Mi aveva presa per una lupa, come gli altri
prima di lui. Invece a me non interessava soltanto la sua carne, avevo bisogno
di sentire quanto ero importante per lui. Ho ammesso con me stessa troppo tardi
che non era disposto ad alcun sacrificio per starmi vicina. È stato un buon
padre, e questo glielo devo riconoscere. Sempre pieno di gioia con le bambine,
un po’ troppo poco severo, forse, ma non ha mai fatto mancare nulla a loro.
Silvia è come me, è chiusa, non gli somiglia e non lo capisce, anzi lo odia, ma
forse solo lo disprezza. Sofia lo adora, vede in lui l’uomo dei suoi sogni. E
io non farò mai nulla perché questo rapporto tra loro cambi. Sofia ha preso
bene la separazione. Almeno lei. Per Silvia non posso dire altrettanto. Credo
che lo abbia assunto come un tradimento. Io non le ho aiutate. Io non ho
aiutato nessuno. Ma ne avevo appena per me per sopravvivere. Non so se sono
stata, e se sono una buona madre. Non credo. Specialmente per Silvia, che ha così
bisogno di qualcuno vicino, che le spieghi quello che vede succedere, anche
adesso che è grande. Ma non ho la forza».
Sotto
i suoi piedi frusciavano le piante che stavano mettendo fuori timidamente il
capo, mentre lei osservava con l’occhio esperto cosa inserire nel mirino della reflex.
Quella mattina aveva avuto desiderio di fotografare l’erba bagnata, e la nebbia
vinta dal sole. Lasciò che la bellezza di quel luogo le si dischiudesse in
particolari che mai aveva notato prima di quel momento. Lei aveva riscoperto
dopo un periodo oscuro l’antica passione, messa da parte in quelli che lei
chiamava gli anni dell’inganno, ed adesso percepiva che il suo spirito era in
pace col silenzio della natura.
La
collina era ricoperta di vegetazione spontanea, e appena si scendeva un poco,
si aprivano le vigne ordinate, i campi coltivati e i semplici giardini. C’erano
ancora dei ricci di castagno in terra, caduti nell’autunno passato, e le foglie
nocciola li coprivano e li rivelavano, attraverso il suono che emettevano sotto
i passi delicati di Elisa.
Era
stata in quella radura in cima alla collina molte volte. E sempre aveva
scoperto nuove sensazioni, nuove immagini da fissare nell’obiettivo. Ricordava in
particolare un giorno di dicembre di qualche anno prima, in cui aveva nevicato.
Si sentiva quasi un lupo nella neve. La sua mente era silenziosa e piena di
pace, mentre l’occhio spaziava alla ricerca di qualcosa che nemmeno lei era in
grado di riconoscere o di percepire. Però non aveva importanza, perché era la
silenziosa serenità che cercava.
Scattò
oltre duecento fotografie quella mattina. Era stata felicissima di essere passata
al digitale. Non si sentiva una purista e, seppure avesse imparato sulle
macchine fotografiche tradizionali, non vedeva per quale motivo non doveva accogliere
quell’innovazione tecnologica che le consentiva di studiare più agevolmente le
inquadrature attraverso centinaia di scatti. Era un modo per poter scavare in
un soggetto fino ad avvicinarsi alla sua anima e a un ideale di perfezione.
La passione
per la fotografia era nata in lei a quindici anni, quando un amico di famiglia
le aveva insegnato i primi rudimenti dell’arte regalandole una fotocamera a
fuoco fisso.
“Quale
sensazione di piacevole benessere percepivo, quando il suo corpo era appoggiato
pesantemente sul mio, mentre mi spiegava come inquadrare gli oggetti. Sentivo
la pressione delle sue mani sui miei piccoli seni, ma non protestavo. Anzi le
accettavo con piacere. Non capivo il suo ansare rauco, allora. Pensavo che
fosse l’impegno a istruirmi. Come ero ingenua!”
In
seguito aveva avuto occasione di approfondire la passione con corsi specifici
durante gli anni di accademia. Adesso era diventato un comune strumento di
lavoro, quando durante le ricognizioni esterne era alla ricerca di oggetti
storici interessanti per la loro schedatura e conservazione.
Elisa vedeva
nel sonno scorrere altri frammenti della sua esistenza e nelle nebbie del
dormiveglia le era apparsa Silvia, quando in quella mattina d’inverno le disse
sorridendo «Divertiti, mamma», mentre l’osservava col semplice cappello, i
guanti leggeri e gli stivali per non affondare nella neve.
C’era
un tacito accordo che le piaceva ricordare. Silvia sapeva che avrebbe scaricato
gli scatti sul computer dicendo, come sempre «Sono tutti brutti, solo qualcuno è
un po’ carino». A volte l’aveva chiamata per esaminarli e partecipare alla
selezione, ma ultimamente succedeva più di rado per colpa sua. Lei non osava
domandare alla madre di farla assistere alla «scoperta» delle foto, come lei
chiamava questa operazione, perché aveva compreso che non amava avere qualcuno intorno
durante questo rito. “E’ vero. Preferivo essere da sola” e questo la isolava
sempre di più.
La
fotografia l’aiutava a ritrovare serenità nei momenti in cui sembrava che
nessuno la capisse o s’interessasse a lei. Lei amava fotografare la campagna,
ma soprattutto disegnare utilizzando le foto come rilievi al servizio dei bozzetti
che aveva immaginato. Non aveva una reale necessità del supporto fotografico,
perché la manualità e la creatività erano eccellenti. Però si trattava di una
specie di esercizio di precisione, che si basava nel riprodurre su carta l’esatta
immagine. E ci riusciva senza molte difficoltà.
Coltivava
il disegno, dove metteva in mostra un estro spiccato ed originale. In gioventù adorava
molto il rosso pastoso e forte della sanguigna, mentre negli anni della
maturità aveva cominciato a prediligere l’acquerello e la tempera su tavola con
colori più sfumati e morbidi. I suoi paesaggi avevano tinte soffuse e delicate,
come i particolari naturalistici. Era un modo singolare per dichiarare al mondo
che era cambiata nello spirito e nel fisico.
Sapeva
che di nascosto Silvia entrava nel laboratorio, allestito nella dependance. Però
fingeva di non accorgersene. Intimamente provava piacere avere cognizione che
la figlia sbirciava tra le sue carte. Molti mesi dopo il divorzio Elisa sentì
che era tempo di ricostruirsi una vita interiore lontano dai ricordi e dalla
famiglia. Così in silenzio aveva cominciato a lavorare alla dependance,
adattandola alle sue esigenze, dipingendola a nuovo, e collocando in un angolo
un vecchio e comodo divano dove spesso restava a dormire.
Silvia
sapeva dove si trovava la madre a riposare tranquillamente nella solitudine del
suo mondo. Pensava che forse nella quiete sarebbe riuscita a ritrovare se
stessa dopo la separazione, e che non poteva né doveva disturbarla in questo
cammino di ricerca e di rinascita.
Quando
aveva ripreso a lavorare presso la sovraintendenza dopo un periodo di vacanze
forzate per riprendersi dal divorzio, era passata tra gli schedatori, un lavoro
poco gratificante. Il fatto di spostarsi per raggiungere le località in cui si
erano conservate le opere, il trovarsi sovente a operare da sola nelle antiche
chiese, favoriva la concentrazione. Amava quel lavoro, che occupava non
moltissime ore della giornata, e la metteva di fronte ogni giorno con manufatti
d’arte quasi sconosciuti, che le sue attente analisi contribuivano a riportare
alla luce.
Una
lacrima scivolò furtiva sulla guancia mentre dormiva.
Capitolo 9
Milano, venerdì 13 aprile 2006. Ore 11
Una
ragazza dai capelli rossi si stava dirigendo verso il gradino più basso
dell’emiciclo, sistemandosi per ascoltare la lezione di Filosofia della scienza.
Era sua abitudine arrivare all’ultimo momento e collocarsi lì al centro
dell’aula. Tutto intorno si udiva il gran vociare degli studenti, che non
terminò nemmeno con l’ingresso del docente. La sala era gremita senza un posto
libero. Era uno dei corsi più seguiti.
Sistemò
la montatura metallica degli occhiali, mentre si sedeva proprio di fronte alla
cattedra. E si preparò a prendere gli appunti della lezione.
Qualche
gradino più in alto due ragazzi la stavano osservando e commentavano il suo
arrivo.
“Stai
dicendo quella con i capelli rossi e gli occhiali rotondi, sempre sola?”
“Sì,
lei. Ah, eccola lì, arriva sempre un po’ in ritardo e finisce seduta sui
gradini vicino alla cattedra. Credo che non ci veda un granché ma .. Beh, sì. Insomma
non è da buttare, tutto sommato è carina. È dall’inizio del corso che … “.
Luca
guardò divertito Davide. “E che ti inventi per scalfire l’ostrica?”
“Non
lo so. Pensavo di chiederle qualcosa sul corso. Lei non perde una sillaba di
quello che il prof spiega, nonostante il casino che c’è in quest’aula”.
L’amico
lo guardò divertito e sorrise come per compatirlo o forse per non
demoralizzarlo. Però adesso si dovevano concentrare per ascoltare quello che il
docente spiegava. Non era facile per il continuo brusio dell’aula stracolma.
Terminata
la lezione, Michela sistemò rapidamente i fogli degli appunti. Si alzò di
scatto per seguire la successiva, scontrandosi con un ragazzo, che le era
comparso dinnanzi all’improvviso come se fosse sbucato dal nulla.
Per
l’urto quello che aveva in mano rovinò a terra. Mentre lui si affrettava a
scusarsi per lo scontro involontario, raccolse la Moleskine rossa e dei
quaderni a righe.
La
ragazza lo guardò innervosita e irritata, sistemando nervosamente la montatura
metallica degli occhiali.
“Mi
ero fermato un attimo a guardarti mentre riordinavi i fogli” le disse con aria
innocente.
Michela,
che non era certa di aver capito bene quello che aveva sentito, lo osservò in
tralice e stava per replicare stizzita quando lui riprese a parlare.
“Avrei bisogno del tuo aiuto. Mi mancano gli
appunti di giovedì sul ‘Motto di spirito’. Ma a dire il vero non ci ho capito
molto finora. Mi potresti dare una mano?”
“Io
devo andare” rispose fredda la ragazza.
“Cosa
segui?”
“Arte
rinascimentale”.
“Dove?”
“In
aula 36. Ciao”.
“Scusa,
non mi sono presentato. Davide” disse porgendole la mano.
“Michela”
ed accennò ad un sorriso stentato, mentre si chiedeva dove posare le carte per
ricambiare senza trovare un piano d’appoggio. Si limitò a un cenno della testa.
”Ciao”
e si allontanò velocemente verso l’aula dove già stavano proiettando le
diapositive.
Michela
si sedette mentre sul muro scorrevano le immagini e il docente comparava la
pittura del Rinascimento italiano a quella fiamminga del Quattrocento. La
prospettiva nei dipinti di Masaccio e Piero della Francesca e la scoperta della
realtà naturale nella pittura ad olio del Nord Europa. La Vergine del Polittico
dell’Agnello mistico di Gand fece da sfondo all’introduzione sulle fonti
antiche che attribuiscono a Jan Van Eyck l’invenzione della tecnica ad olio.
Non
era sicura di aver fatto la scelta migliore iscrivendosi a lettere, con
indirizzo discipline artistiche anziché a psicologia. Era stata una decisione
difficile, tra due passioni altrettanto grandi: gli studi psicologici e l’arte
in generale.
Li riteneva
due diversi approcci per capire l’uomo e cercare risposte alle proprie domande.
Aveva avuto due insegnanti al liceo che le avevano instillato un vero interesse
per la letteratura antica e la storia dell’arte.
Tradurre
dal latino e dal greco le aveva insegnato a ricercare la struttura che stava
sotto i fenomeni apparenti della lingua. La poesia e la tragedia le avevano
fatto intuire l’universalità della natura dell’uomo. L’arte l’aveva avvinta con
la sua meraviglia, ma poi era rimasta sulla soglia, chiedendosi se veramente
voleva approfondire gli aspetti più tecnici di questa disciplina.
Aveva
deciso di non scegliere l’indirizzo archeologico ma quello storico artistico
perché aveva sentito dentro di sé esplodere la voglia di conoscere la storia e
la psicologia che stava dietro l’opera d’arte e non la minuziosa ricostruzione
della scoperta dell’opera stessa. «Può essere questo un motivo sufficiente a
confermare la bontà della scelta?». Se la stava chiedendo, mentre il docente
sottolineava la capacità di analizzare la psicologia dei personaggi che
emergevano dai ritratti di Van Eyck.
Aveva
fatto molte letture da autodidatta sulla psicologia, fin dal liceo: ‘Il motto
di spirito’ di Freud, i saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio. Amava
la chiarezza espositiva senza eguali del padre della psicanalisi.
Aveva
conosciuto lo junghiano Hillman attraverso l’insegnante di greco, che aveva
proposto agli allievi ‘Il mito dell’analisi’, per capire da un punto di vista
non strettamente letterario e storico il concetto dionisiaco nella tragedia. In
Hillman aveva letto per la prima volta del ‘panico’, che secondo le sue teorie
derivava dal nome del dio greco Pan.
L’associazione
tra Pan e ‘panico’ fece scattare in lei il desiderio di appuntare ciò che era
scaturito nella mente dal concatenamento di concetti casuali. Spesso sentiva
questa necessità, quindi portava con sé quasi sempre un piccolo taccuino di
pelle nera su cui scriveva ciò che vagava libera nella testa. Regolò la piccola
luce che illuminava il quaderno durante la proiezione delle diapositive e aprì
l’agenda rossa anziché il solito notes che era rimasto a casa dimenticato nella
fretta di uscire.
«Il
primo attacco di panico, che ricordo di mia madre, lo ha avuto un pomeriggio
d’estate in campagna, dovevo avere all’incirca sette, otto anni. Con noi c’era
mio padre.» annotava con la sua grafia minuta e nervosa, mentre sul muro
scorrevano le diapositive senza che lei le osservasse.
«Ci
stavamo avvicinando ad un gregge di pecore che sostava tranquillo dentro un
recinto. Volevo accarezzare il muso di una di loro. Mio padre mi teneva la
mano. All’improvviso la mamma è sbiancata, le era mancato il respiro. Allora
lui mi ha lasciato per correre da lei, per stringerla a sé e domandarle se
stava bene. Ha detto solo ‘Voglio andare a casa. Immediatamente’. Sembrava che
mio padre avesse già vissuto questa situazione altre volte. Il suo volto era
teso. Non mi teneva più la mano. Io ho guardato mia madre e non ho capito cosa
era successo. Dopo quella volta ha avuto altri attacchi, ma nessuno lo ricordo
nitido e vivo come quello. Poi col tempo ho imparato a prenderli come una cosa
quasi naturale, come le grandinate improvvise d’estate senza preavviso.
L’accompagnavo a sedersi, come avevo visto fare da papà. Le accarezzavo la
mano. Lei stava in silenzio, un po’ tremava, scossa da qualcosa che non vedevo.
Mi sorrideva per un attimo, ma era come se fosse dietro a un vetro appannato
dal vapore. In quegli anni i suoi occhi erano spaventati, sempre. E io avevo
tante domande senza risposte. Avevo paura e, da che ricordo, parlavo con mio
padre, che mi guardava in viso e mi sorrideva sempre senza dire nulla. Io amo
mia madre, ma l’ho sentita sempre distante e distaccata. Mentre elaboro questi
ricordi, emerge un’altra sensazione forte, non scaturita da nessun episodio in
particolare che possa ricordare. Ho avuto l’impressione che mia madre fosse
terrorizzata dalle mie grida. I bambini gridano per le piccole gioie, come per
le ombre che li attraversano. L’unica cosa che papà mi chiedeva era di non
gridare e di parlare a bassa voce in casa».
L’accensione
improvvisa di tutte le luci dell’aula riportò Michela alla realtà, alla lezione
di arte rinascimentale, che era nel frattempo finita. L’insegnante stava
riordinando le diapositive.
“Chissà
da quanto tempo non ho più ascoltato” pensò riscuotendosi dalla concentrazione
della scrittura. Guardò l’orologio d’acciaio che stringeva il polso. La lezione
di letteratura italiana era nel palazzetto adiacente all’edificio antico
dell’università.
Raccolse
le sue cose e, percorsi i gradini che portavano al piano dove si trovava la
cattedra, si voltò a vedere se aveva scordato qualcosa.
“Come
farò ad avere gli appunti. Qui non conosco nessuno, accidenti”. Però quel pezzo
di mosaico della vita spingeva dentro di lei per venire alla luce e non poteva
ignorarlo, come aveva fatto per troppo tempo.
Capitolo 10
Brianza, venerdì 13 aprile 2006. Ore 10
La
giornata del 13 aprile era splendida e tersa, dopo giorni di grigio e di
pioggia. Era adatta per uscire dalla città e stare all’aria aperta.
Gli
occhi di Silvia si posarono sul giallo dei campi di colza che abbracciavano la
strada da entrambi i lati, mentre si era protesa verso Laura, che guidava con
andatura tranquilla. Percepì l’impulso di sfiorarle la nuca. Nell’incavo del
collo aveva intravisto quel giallo abbagliante che si univa ai verdi intensi
delle piante primaverili e al bianco delle nuvole gonfie di vento. Gli stessi
colori pulsavano in lei adesso per la semplice vicinanza di Laura. Avrebbe voluto
baciarla, essere stretta dalle sue braccia, ma non era possibile. Doveva limitarsi
per il momento ai sogni.
“Chissà
come sarebbe stato lo stage di Young. Mi dispiace che tu non ci sia potuta
andare. Come abbiamo detto a tutti, era una buona occasione per vedere al
lavoro un grande trainer, e un metodo lontanissimo da quello italiano” così
risuonavano le parole di Laura appena sovrastate dal rumore del motore. A
Silvia di Young non importava nulla, ma di Laura sì. Oggi poteva starle accanto
per l’intera giornata. Senza la presenza ingombrante di altre persone.
Lei le
sorrise, pensando alla telefonata del giorno precedente, perché ricordava bene
quello che le aveva detto. «Potrei dirti che ho seguito un desiderio
improvviso, ma non sarebbe la verità. La verità l’ha detta il mio corpo che
ribolliva tra le tue mani».
Erano
queste le parole che aveva pronunciato, mentre pensava che, qualsiasi cosa
venisse da Laura, le appariva come un grande dono da assaporare e da godere con
lentezza, anche se erano solo pochi minuti e non una giornata intera come quella
odierna.
“Silvia,
non so se stiamo tenendo un atteggiamento corretto, ma soprattutto se io lo assumo
nei tuoi confronti. Forse ti faccio del male” proruppe all’improvviso Laura
rompendo il silenzio dell’abitacolo.
“Cosa
dici, Laura? “ replicò Silvia impaurita, mentre cercava la mano di lei, che
teneva fisso lo sguardo sulla strada come se il contatto non si fosse
materializzato.
“Il
male non sempre si fa con l’intento di nuocere” rispose pacata, mentre tentava di
placare l’intimo subbuglio che diventava sempre più intenso e minacciava di
traboccare dalla bocca.
“Non
ti seguo” ribatté incerta e titubante come se il cielo si fosse oscurato
all’improvviso e minacciasse tempesta “Ho voglia di provare i costumi per lo
spettacolo, desidero stare con te nella tua casa sul lago. Sento che mi parlerà
di aspetti che non conosco. Io ti ho vista solo in quell’aula o all’interno del
teatro. Desidero la tua vicinanza, voglio assaporare il gusto della tua pelle,
ascoltare le tue parole. Questo non è male. Non può essere il male”.
Mentre
Laura cercava di domare il demone del desiderio, che si affacciava nella mente
e ribolliva come un tino, sfiorò il viso di Silvia. Lei cominciò ad
accarezzarle la mano con la guancia come il gatto che si strofina nelle gambe
del padrone, finché non le strappò un sorriso. Rimasero mute in silenzio come
se si fosse inaridita la fonte della parola.
Entrambe
riflettevano su quanto era stato detto: ciascuna in maniera differente. Laura
era incerta tra dare sfogo alla voglia di accarezzare quel corpo giovane e
morbido e il senso di responsabilità che l’età doveva suggerirle. Silvia aveva
l’angoscia nel cuore, perché le fantasie, suscitate dall’essere vicino alla
donna che aveva alimentato i suoi sogni, sembravano svanire nel nulla.
Questa
sensazione di tensione aleggiava pesante tra loro e impediva di manifestare
quello che percepivano e avrebbero voluto esprimere esplicitamente.
Però
il silenzio e il turbamento cessò, quando il borgo, la meta del viaggio,
apparve repentino dopo una curva, mentre uscivano da un piccolo bosco di querce
e castagni nella campagna ondulata della Brianza. Come per magia scomparve ogni
segno lasciato da una discussione lasciata a mezz’aria, mentre sui loro volti
riapparve la serenità che il luogo trasmetteva.
Il
lago splendeva in lontananza quando Laura si infilò in un dedalo di stradine
antiche, che Silvia volle percorrere a piedi. A volte Silvia le sembrava una
bambina con il viso solcato da ogni emozione, mentre lei le stringeva la mano
con vigore ed affetto. Era il cruccio che le impediva di dare libero sfogo al
nuovo aspetto della sua personalità, occultato per molti anni e ignorato dalle
ipocrisie delle consuetudini consolidate. Una novità che interrompeva la
monotonia di una esistenza costellata di sbalzi di umore.
In
quelle vie strette e poco baciate dal sole c’era il negozio di costumi teatrali
più ricercato dalle compagnie teatrali della Lombardia. Loro arrivarono in
silenzio tenendosi per mano come due teneri amanti.
La
proprietaria riconobbe immediatamente Laura, che conosceva di vista dai tempi
in cui faceva la costumista teatrale, accogliendole affabilmente. Raccontò di
aver aperto la sua attività da dieci anni in questo borgo lontano dalle strade
di grande scorrimento e di non aver risentito dello spostamento da Milano. I
suoi costumi e la sua competenza continuavano ad essere ricercati dalle
compagnie sia professionali che amatoriali, che si spingevano fino lì alla
ricerca del meglio.
“Cerchiamo
i costumi delle protagoniste femminili per la rappresentazione di ‘Romeo e
Giulietta’, che farò con i miei allievi del secondo anno tra poco meno di un
mese” disse Laura con tono professionale e garbato.
“Che
taglia?” chiese la costumista con una punta di incertezza mista a dubbio,
perché le sembrava strano che venisse una persona sola a provare i costumi per
le diverse interpreti.
“Li
proverà lei, che è Nutrice” continuò Laura decisa e secca ritenendo inopportuno
dare altre spiegazioni.
La
proprietaria senza aggiungere altro andò nel retrobottega a prendere due
costumi uno per Giulietta ed uno per Nutrice. Mentre avrebbero provato questi
due, ne avrebbe cercati altri. Però era certa che sarebbe stata fatica inutile,
perché li avrebbero scelti senza ulteriori prove. L’esperienza maturata in
tanti anni e la conoscenza dei gusti di Laura le suggerirono che questi
avrebbero messo in risalto la figura minuta e pallida della ragazza. Nell’attesa
si domandò quale strano rapporto intercorresse tra le due donne tanto diverse
per aspetto ed età. Però preferì conservare dentro di sé questo quesito, perché
era donna di teatro.
Silvia
entrò nel camerino con un abito blu di broccatello, si tolse i jeans e la
canotta, rimanendo con le sole mutandine. Sentì alle sue spalle una presenza
che le accarezzava la nuca con la lingua, mentre le mani si posavano sul suo
corpo. Attese un attimo per gustare queste sensazioni e poi si girò
delicatamente. La guardò in silenzio con gli occhi che scintillavano di piacere
mentre percepiva il desiderio crescere dentro di lei. Avrebbe voluto essere già
alla casa sul lago, ma doveva ancora attendere.
“Come
va?” chiese la proprietaria che stava davanti al mucchio di costumi da provare.
Laura senza
rispondere chiuse la lampo sulla schiena di Silvia, che sorrise maliziosa. Uscirono
silenziose dal camerino. L’abito faceva risaltare la pelle chiara della ragazza.
Il taglio impero le sottolineava e valorizzava il seno. Era semplicemente
perfetta. L’effetto era esattamente quello atteso, come aveva previsto la
donna, quando lo aveva scelto.
“Che
sto facendo? Potrebbe essere mia figlia” si disse Laura, mentre un pensiero
doloroso le attraversava la mente. Di nuovo stava combattendo dentro di sé la
battaglia che era stata sospesa all’apparizione del borgo. Guardò Silvia che le
sorrideva con una grazia, che non aveva mai avuto prima di allora, piena di
luce e di serenità e si rincuorò, ricambiando il sorriso.
“Ora
il costume della nutrice, il tuo, mia saggia Nutrice“ disse con voce leggera e
sonora Laura per interrompere quel flusso di pensieri malevoli che aleggiavano
minacciosi nella testa.
La
scollatura arricciata dell’abito esaltava il piccolo seno di Silvia e la linea
semplice seguiva i suoi fianchi. Lei si sentiva per la prima volta nella sua
vita una giovane e bellissima donna, come mai le era capitato fino a quel
momento. Però quello che la gratificava era lo sguardo dolce e affettuoso di
Laura.
La
proprietaria era soddisfatta perché aveva intuito cosa cercavano e ripose con
cura nelle loro custodie i ricchi abiti di Giulietta e della Nutrice. Laura
saldò il conto, mentre percepiva nettamente lo sguardo curioso della costumista
su di loro. Però era una donna di teatro, dove la libertà e la capacità di non
restare in un ruolo prestabilito erano valori condivisi. La proprietaria uscì
dal bancone per salutarle e le baciò sulle guance, come si usa nell’ambiente,
mentre Laura stringeva la mano di Silvia. E uscirono coi pacchi a dondolare
sulle loro gambe, seguiti dallo sguardo malizioso della costumista, che non era
stata tratta in inganno.
La
casa non era molto distante appena fuori dal paese e, pochi minuti dopo, il
lago splendeva davanti a loro illuminato da uno scintillante sole di aprile.
Silvia
lo vedeva attraverso il finestrino ed assaporava ogni sfumatura della luce che
increspava la quiete dell’acqua. Le pareva che Laura fosse tornata ad essere
serena accanto a lei, mentre la vedeva sorridere teneramente. Questo dissipò
ogni turbamento provato in precedenza. Adesso si sentiva tranquilla perché il
senso delle parole dette poco prima le parevano solo il frutto della sua
immaginazione.
Arrivarono
davanti ad una casetta bianca, semplice ed isolata, circondata su due lati da
un fitto faggeto. Il prato prospiciente l’ingresso era ben curato con macchie
di rose che stavano fiorendo.
Questa,
pur non essendo abitata con continuità, era sempre linda e pulita, perché una
donna del paese aveva ricevuto l’incarico di eseguire le pulizie con regolarità
tutte le settimane, come se Laura dovesse venirci il giorno dopo. Nella
giornata precedente aveva telefonato dandole le istruzioni di rigovernare con
cura le stanze, preparare il letto e riempire il frigo con quanto sarebbe stato
necessario per un breve soggiorno. Era intenzionata a fermarsi da sola o con
Silvia per il week end per riflettere
con calma su se stessa, su Mattia, su Michela, su tutto il resto che ruotava
nel suo mondo.
Entrando
erano state accolte da una sensazione di ordinato, di pulito come se la casa
fosse abitata. Una vasta stanza con il camino in un angolo e la cucina a vista
dalla parte opposta era la prima visione che era apparsa a Silvia, mentre una
scala in legno portava al soppalco, dove troneggiava un letto matrimoniale.
Laura
aveva scelto come arredo mobili rustici di legno e tappeti etnici. Silvia si
soffermò a lungo davanti ai calchi di maschere greche, alle maschere africane
di legno, a quelle della commedia dell’arte.
“Chissà
quanti pezzi hai …” iniziò Silvia stupita per la quantità e la varietà di
maschere appese alle pareti ed in ogni dove.
“Non
ne ho di maschere a casa.” la interruppe subito Laura per troncare domande
imbarazzanti sulla sua vita “Qui c’è l’intera collezione che è più o meno come
quella prima di sposarmi. Qualche pezzo è dono di mio marito, ma quando ha
smesso di viaggiare, non ho più aggiornato la mia raccolta”. Però non riuscì a
dissimulare nel viso e nella voce la tensione che l’argomento le provocava.
“Cosa
è successo, Laura?” chiese titubante Silvia, come se avesse il timore di aprire
un cesto del quale ignorava il contenuto.
“Ho
avuto un grave crollo nervoso durante la gravidanza e dopo la nascita di mia
figlia. Michela è stata allevata dal padre, anche se io nominalmente sono la
madre. Io non sono quella donna che ho voluto mostrare, per non mandare in
pezzi la mia vita esteriore composta da marito e famiglia”.
Sottolineò
queste parole con un sorriso pieno di dolore e proseguì che la maternità, non
voluta, aveva trasformato l’amore per Mattia in rancore sordo mai dissimulato
nonostante che lui la colmasse di attenzioni. Era la prima volta che confessava
le proprie debolezze con sincerità.
”Come
ti ho detto, non è stato un desiderio improvviso quello che ho provato per te.
E’ che tu mi hai permesso di far emergere quella parte del mio essere, nascosto
e mai conosciuto. Io l’ho sempre ignorato”.
Le
sorrise dolcemente stringendole la mano. Silvia si senti obbligata a spiegare
come si fosse sentita attratta da lei. Non c’era stato un motivo particolare,
ma aveva compreso dopo avere perso la verginità che il suo mondo interiore
voleva la vicinanza al femminile.
“E’
come se un raggio improvviso di sole avesse squarciato le tenebre della stanza,
facendoti vedere che questa non era come l’avevi immaginata” proseguì con tono
caloroso “In ugual misura ho capito che era una donna quello che desideravo”.
Aveva
percepito che la sua vita era vuota come un guscio privato del corpo interno,
così aveva cercato in Laura aiuto e protezione, amore e desiderio per colmare quello
che mancava dentro di lei. Aveva sentito a poco a poco che la loro vicinanza si
stava trasformando in qualcosa di diverso, finché non ebbe la certezza dei
sentimenti durante il loro incontro di qualche giorno prima.
Erano
al centro della stanza e si fissavano con intensità pronte ad esternare le loro
sensazioni, ma Laura si sentiva in dovere di spiegare, di precisare, di rendere
manifesto quello che in tutti questi anni aveva trattenuto dentro di sé.
“Sto
maturando l’idea di andare via da casa, di separarmi da mio marito, di pensare
a me stessa con una visione differente della mia vita. E questo anche nel campo
dei sentimenti”.
Era
consapevole che l’abitazione in cui viveva le andava stretta in senso figurato,
mortificava la sua creatività, si sentiva prigioniera di un cliché, che era
estraneo alla sua personalità. Tutto le costava fatica e ansia, mentre con
sempre maggiore fatica teneva a bada il demone che la stava divorando a poco a
poco.
“Percepisco
che ho delle colpe verso di lui, e soprattutto verso mia figlia, che ha più o
meno la tua età. Entrambi mostrano affetto verso di me, che non riesco a
ricambiare. Intuisco che devo stare da sola coi miei pensieri e le mie emozioni
per ritrovare la calma che in questi anni ho smarrito. Devo riflettere in
solitudine lontana da tutti e da tutto. Però non temere, un posto per te ci
sarà sempre dentro e accanto a me”.
Silvia
abbracciò Laura che cominciò a piangere per la gioia.
..segue ..