Poesie in libertà. La poesia è lo specchio dell'anima

domenica 6 novembre 2011

Estranea



Capitolo 1

Milano, mercoledì 11 aprile, 2006. Ore 20
Laura era seduta davanti al portatile, quando un breve suono le annunciò un nuovo messaggio di posta.
Continuò nelle sue occupazioni. C’era tempo per leggerlo. Non desiderava essere distratta, perché stava preparando le prossime prove del “Romeo e Giulietta”. Voleva essere accurata e precisa e non tralasciare alcun dettaglio perché le ultime volte erano state poco attente a causa delle molte imprecisioni degli interpreti e anche, doveva riconoscerlo apertamente, dell’allestimento della scena. Era risoluta che questo non si ripetesse più in futuro, dato che questo le provocava tensioni e stress correggere in continuazione gli interpreti e cercare la risistemazione della scenografia quasi brancolando nel buio. Era ben conscia che queste ansie nervose non erano il toccasana per la sua malattia, col rischio sempre latente di un attacco improvviso di panico senza avere la certezza di padroneggiarlo. Nessuno lo sapeva perché era riuscita sempre a nasconderlo.
Era così intenta nel lavoro che ben presto si dimenticò del messaggio arrivato. Non le tornò in mente nemmeno dopo avere terminato le note operative per la prova generale del giorno seguente.
Si allungò sulla poltrona per rilassarsi. Aveva lavorato intensamente per molte ore e voleva scaricare il nervosismo accumulato. Ripensò alla giornata appena trascorsa, agli imprevisti in scena e agli eventi successivi, che erano riusciti a stemperare tutto lo stress immagazzinato.
Sì, c’era stato un piacevole e sorprendente fuori programma, che l’aveva lasciata di buon umore, come difficilmente le era accaduto negli ultimi anni.
La vita familiare non era eccitante, tanto da indurla a gettarsi a capofitto nel lavoro, trascurando marito e figlia. Sentiva dentro di sé un rancore sordo, un distacco da quella esistenza che le andava stretta. Ormai da moltissimo tempo non aveva rapporti col marito e non desiderava averne nemmeno con altri uomini. Si era concentrata solo sulla sua persona, gli altri non esistevano.
Rifletteva, quando un nuovo segnale le interruppe i pensieri. Altri messaggi erano arrivati.
Si riscosse, aprì il programma di posta e cominciò a leggerli.
La sua attenzione cadde su quello inviato da Silvia.

Mia Laura,
so che non posso chiamarti o scriverti un messaggio, con le parole che vorrei. Ho bisogno di dirti ancora che mi manca il tuo abbraccio. Non credevo fosse possibile quanto abbiamo vissuto oggi. Parlavamo del teatro, come sempre, della teoria e della sua carnalità, del poter essere in scena il traditore e il bambino, e ci siamo trovate vicine nei sensi e nelle parole, sempre più in profondità, fino alle corde inespresse dalla mente. Già, le corde inespresse, come dici tu. Non sapevo cosa sarebbe successo, non ho pensato, ti ho solo desiderata e mi sono lanciata nel vuoto avvicinandomi a te, portata da non so quale forza. Sì, lo so quale forza, ma ho paura di dirtelo. «Sulle ali leggere dell’amore ho superato queste mura: non ci sono limiti di pietra che possano impedire il passo all’amore, e ciò che l’amore può fare, l’amore osa tentarlo. Ecco perché i tuoi parenti non mi possono fermare…» Ecco cosa dice Romeo. In scena interpreto con tutto il mio cuore Nutrice, ma avrei voluto essere Giulietta, e tu lo sai. E mi innamoravo sempre di più vedendoti insegnare a Giulietta come muoversi in scena. E io, Nutrice, dovevo portarla via, ma in realtà l’assecondavo nel suo rubare un attimo per godere ancora della vicinanza del suo giovane amore. E ora sono io, forse, quel giovane amore… Amore. Parola grande e infinita, così difficile da pronunciare per chi ne conosca il peso. Come sempre con te perdo il filo dei pensieri, ma forse mai come ora lo ritrovo. Oggi ti ho sentita, finalmente. Ho compreso che non è solo un mio delirare, vano. Che ci sei anche tu, a dibatterti in questo sentirci, che ora è di entrambe, a non volerlo accettare del tutto, ma a percepirlo sempre più forte crescere dentro. La tua bocca, Laura, il tuo respiro, la tua pelle. Avrei pianto tra le tue braccia, ma le lacrime non mi sono uscite. Poter piangere tutta la mia sofferenza tra le braccia di chi sente, capisce, conosce il mio cuore. E i tuoi occhi non erano asciutti oggi, dopo che ci siamo strette, e finalmente baciate, delicatamente, mentre le braccia si stringevano quasi ancorandosi al corpo dell’altra per unirci in un bacio vero. Ci siamo aggrappate l’una all’altra in quell’immenso bisogno di noi. Ho imbevuto la mia bocca, le mie mani di donna nella tua essenza. Ho sentito, come un lampo dentro, il tuo gridare con me. Con me. Con me. Accucciata sul tuo piccolo seno, quasi da adolescente, mi sono colmata del tuo sorriso, del tuo tenermi con te. Poi la tua voce. Per me è un canto. Mentre mi accarezzavi il viso mi hai parlato. Hai ragione, sai. Io lo so. E io posso stare in un angolo, felice se rubiamo un’ora per noi. Mi basta sentire che non è solo desiderio, non è follia quella che cantava oggi nei tuoi occhi.
Ti mando un’immagine di noi, un fiore rosso.
Silvia

Laura ripercorreva con la mente quanto era successo nel pomeriggio, risvegliata dal messaggio appena letto.
Di certo quell’incontro fortuito e appagante con Silvia, la sua allieva, aveva cambiato il volto alla giornata.
Le prove erano state un disastro. C’era tensione tra loro e nessuno sembrava prestare attenzione ai dettagli. Tutti sembravano presi da altri pensieri, svagati come se la primavera li avesse svegliati dal sonno invernale. Aveva dovuto urlare e riprendere mille volte Giulietta, che sembrava avere la mente troppo deconcentrata e poi Romeo che era troppo caustico e pungente, per non parlare delle scene, tutte approssimative ed imprecise. Sapeva di avere delle responsabilità nel caos generale con le note che non avevano saputo indicare al gruppo la strada da seguire, e per giunta con così poco tempo a disposizione per la messa in scena del saggio.
Ricordava che al termine si sentiva nervosa ed eccitata allo stesso tempo, un miscuglio indefinito di sensazioni che avrebbe avuto la necessità di essere placato.
«Nel pomeriggio al termine delle prove ho dato un passaggio a Silvia. Abbiamo cominciato a parlare di teatro, di Romeo e Giulietta, di loro e delle aspettative della ragazza. Durante il tragitto siamo rimaste incantate dal tramonto, tra nuvole rossastre e squarci di sereno, dopo molte giornate uggiose e piovigginose, fermandoci in un viottolo appartato per osservare lo spettacolo. Non so chi abbia cominciato, se per gioco o per convinzione, ma le nostre mani hanno intrecciato un balletto sui corpi. E ci siamo trovate a baciarci furiosamente divorate da una passione che non ho mai creduto di possedere. E’ stato bellissimo quanto spontaneo il nostro stringerci e accarezzarci. Per quanto siamo rimaste lì a stimolare a vicenda i nostri sensi, non lo so, perché ho perso la percezione del tempo. Però ricordo che le ombre stavano calando rapidamente. Ci siamo ricomposte prima che io l’accompagnassi a casa. Le sensazioni di gioia e piacere mi hanno accompagnato fino a questo momento. Ora sono state risvegliate dalla lettura di questo messaggio».
Chiuse gli occhi per riassaporare la percezione di benessere che aveva provato qualche ora prima.
Ripensandoci in questo momento, credeva che quelle emozioni fossero state sopite per sempre. In realtà non era vero.



Capitolo 2

Laura amava il suo lavoro, al quale dedicava molto tempo, seguendo una piccola compagnia teatrale, che girava quasi esclusivamente per la regione. Aveva iniziato con altri colleghi due anni prima un corso di recitazione per insegnare a giovani aspiranti attori come muoversi e parlare in scena. Stavano preparando il saggio che avrebbe concluso il secondo anno: un’opera impegnativa sia per l’interpretazione, sia per la scenografia.
Si riscosse dal leggero torpore nel quale era caduta sotto l’incalzare dei ricordi e vide riflessa nello specchio dietro il monitor una donna non più giovane. Anzi a osservare bene, notava le prime tracce che il tempo stava lasciando nel suo fisico: qualche filo bianco annidato nei capelli castano scuri appariva beffardo. Gli occhi azzurri sembravano spenti per la tensione accumulata in queste settimane, ma forse era solo l’effetto dell’oscurità della stanza. Scosse la testa come per scacciare questi cattivi pensieri.
Si appoggiò allo schienale della poltrona, intrecciando le mani dietro la nuca, e rifletté su quanto era avvenuto nel tardo pomeriggio.
“Silvia è una ragazza dolce e sensibile, che racchiude in sé qualche mistero e un terribile desiderio di affetto. E’ giovane, troppo giovane. Non cessa un attimo di guardarmi e pende dalle mie labbra. Sto commettendo un errore incoraggiando il suo amore verso di me? E’ giusto questo mio comportamento? Non so nulla di lei, né della sua famiglia. Sembra un piccolo animale selvatico, schivo e timido, pronto a nascondersi nel folto della foresta al primo accenno di pericolo”.
Laura provava quasi un rimpianto che la ragazza fosse troppo giovane per un rapporto serio tra loro. Le pareva che si fosse risvegliata dopo un lungo letargo un aspetto della sua personalità, che era rimasto latente e nascosto in tutti questi anni e del quale non aveva afferrato la vera natura.
Andò indietro di due anni nel ricordare il primo contatto, avuto con Silvia durante lo stage iniziale. Le tornò nitida l’immagine di quando aveva dovuto massaggiarla per sciogliere la tensione che aveva nel corpo, come si fa con la persona amata.
Quel massaggio le aveva trasmesso un brivido profondo, a cui non aveva prestato subito attenzione, sbagliando a non interpretare nel modo corretto quel segnale inequivocabile.
Laura era una donna sposata con una figlia ventenne, più o meno dell’età di Silvia. Col pensiero tornò a quando aveva all’incirca gli stessi anni, perché a solo venti anni si era sposata con Mattia. Rifletté che forse era stata troppo frettolosa questa scelta. Però si era innamorata di lui, un ragazzo alto dai capelli castano chiari, quasi rossi, brillante e disinibito, fin dal primo istante, quando si erano conosciuti tra i banchi di scuola.
“Ero timida e bruttina per via dell’acne, che mi deturpava il viso” si disse, rivedendosi in un ricordo molto lontano nel tempo. Si domandò se quello era stato vero amore o solo innamoramento. Tralasciò la risposta, mentre proseguì in quel flashback ormai sbiadito e consunto dalle circostanze successive.
Si chiese come era riuscita a fare breccia nel cuore di quel ragazzo, adorato e inseguito da tutte le ragazze del Liceo e non solo da loro.
Ricordò che era ricercatissimo e aveva sempre intorno a sé nugoli di coetanee, che smaniavano per lui. Mattia frequentava la seconda liceo, mentre lei solo la quarta ginnasio. Adesso la domanda era come aveva potuto notare lei, neppure bella o affascinante, tra quel branco di ragazze, più vecchie e smaliziate di lei.
La nuova ondata di ricordi la sommerse, mentre ricercava le motivazioni di questo suo scavare dentro di sé.
“Forse sono stati gli avvenimenti del pomeriggio a scatenare tutto questo?”
Laura stava ripercorrendo un pezzo della sua vita, mentre un pizzico di tristezza e di nostalgia le stava offuscando la vista, perché erano dolorosi e dolci allo stesso tempo. Aveva creduto di averli seppelliti per sempre cancellandoli dalla mente ma evidentemente si era sbagliata, perché come una concatenazione logica li aveva fatti riaffiorare e adesso erano lì impietosi a pretendere il pedaggio.
Quando si iscrisse alla quarta ginnasio, che le aprì le porte alle superiori, quell’anno era stato molto travagliato tra scioperi e assemblee studentesche che avevano costellato quella stagione di rivolte studentesche. Ricordò nitidamente quel pomeriggio, quando fu indetta un’assemblea al Liceo Classico Monti per fissare l’ennesima manifestazione, una delle tante di quell’anno tormentato. E rivide la scena quando senza nessuna premeditazione era finita di fianco a Mattia.
“Ciao” mi disse con calore stringendomi la mano.
Lei diventò rossa per l’emozione e balbettò un «Ciao» appena sussurrato.
“Non ti ho mai vista alle assemblee. Sei nuova?”
“Beh! no.. si.. in verità degli scioperi non m’importa nulla. Però ..” riuscì appena ad accennare con la voce rotta dall’emozione, perché questo ragazzo ambito da tutte noi le stava parlando.
Si guardò intorno alla ricerca di qualche compagna per mostrare Mattia come un trofeo. Poi però si concentrò su di lui, perché le interessava solo la sua vicinanza e ascoltare quello che le avrebbe detto.
“A dire il vero ..” cominciò prendendomi la mano senza lasciarla un istante. “Nemmeno a me importa molto di questo sciopero che ritengo inutile. Infatti vedo solo gente annoiata che non aspetta altro che sgusciare fuori per prendersi un’altra giornata di vacanza, a parte il gruppetto che guida il branco. Che ne dici se filiamo in giardino a proseguire la chiacchierata senza essere disturbati?”
Lei annuì perché era venuta unicamente per osservare come si svolgeva un’assemblea studentesca. Era la prima volta che vi partecipava e dello sciopero non gliene fregava nulla. Così senza farsi notare erano sgusciati fuori nel giardino.
Seduti sotto un albero Mattia le chiese come si chiamava, perché fino a quel momento avevano parlato come se fossero amici di vecchia data..
“Laura” rispose pronta e rinfrancata.
“Mattia” replicò stringendomi le spalle.
Disse tra sé e sé «lo sapevo», accettando quell’abbraccio inaspettato, che le aveva provocato una scossa.
Nel ripercorrere quel ricordo nelle pieghe della mente, rifletté col senno del poi, se fosse stato un autentico colpo di fulmine oppure una banale infatuazione giovanile poco ponderata. A quel tempo aveva pensato che aveva trovato il grande amore, quello con la a maiuscola. Però adesso era convinta del contrario: una semplice scuffia da adolescente immatura che sognava di trovare il mitico principe azzurro.
“Se avessi ragionato un po’ più freddamente, probabilmente la mia vita avrebbe preso una piega differente” disse ad alta voce come per rimproverarsi di quella scelta di vita.
Da allora non si erano più lasciati. Nemmeno adesso che i rapporti erano talmente deteriorati da scambiarsi a malapena la cortesia di un saluto. All’università Mattia bruciò le tappe, laureandosi in leggero anticipo. Immediatamente dopo si sposarono senza aspettare di essere più consapevoli del passo che stavano intraprendendo.
Ripensandoci adesso col senno del poi, si rendeva conto che non era pronta per quel passo tanto importante, affrontato con troppa disinvoltura. Riflettendo si rese conto che forse non era nemmeno adatta al matrimonio, come aveva scoperto quasi subito dopo.
Laura era giunta a questa considerazione, scorrendo i primi tempi del matrimonio e alle situazioni che si erano sviluppate. Così riprese a ragionare ad alta voce.
“All’inizio non sapevo cucinare e nemmeno come tenere una casa. Un vero disastro! Se Mattia non fosse stato così paziente, avrei passato le mie giornate a piangere! Dovevo frequentare l’Università, preparare gli esami, cucinare e stirare. Alla sera mi addormentavo per la stanchezza. Quante volte mi ha portato nel letto e spogliata, perché mi ero assopita sul divano davanti al televisore. Al ritorno dal viaggio di nozze per alcuni mesi non abbiamo avuto rapporti, perché ero talmente stanca e stressata, che prendevo sonno durante i preliminari”.
Però non comprendeva come lui avesse potuto sopportare tutto questo: forse il suo era vero amore, forse aveva un’amante segreta, forse si sentiva in debito verso di lei. O forse niente di tutto questo. Però riprese quasi subito a riflettere su quello che era successo in quegli anni.
“Dopo un paio di mesi Mattia aveva deciso di aiutarmi in casa per avere più tempo per la nostra intimità. E’ stato provvidenziale perché ormai ero sull’orlo di una crisi esistenziale”.
Le avevano sempre detto che i primi anni di matrimonio sarebbero stati i più belli ed emozionanti, ma in realtà per lei erano diventati un incubo, come ricordava con angoscia. Un paio d’anni dopo, tra momenti felici e altri più cupi, era riuscita a laurearsi e a ritrovare un equilibrio precario tra depressione e ricerca della propria identità. Erano stati momenti angoscianti da superare. L'impatto delle circostanze aveva fatto sì che lentamente aveva cominciato a provare odio verso il matrimonio, la casa e tutto quello che ruotava intorno a questo mondo. Si sentiva in gabbia senza riuscire a fuggire dalla condizione nella quale si trovava.
L’amore, o quello che aveva creduto che fosse, verso Mattia era scemato giorno dopo giorno trasformandosi dapprima in freddezza, poi col tempo in rancore. Lui aveva tentato di ricucire lo strappo, ma era stato tutto inutile. Identificava in lui tutti gli uomini che le apparivano solo degli egoisti pronti solo a far sesso e per questo non era stata capace di perdonargli il fatto di averla sposata.
Per scacciare queste sensazioni si era allontanata fisicamente e psicologicamente dal marito e da tutte le incombenze legate alla casa, immergendosi sempre più nel lavoro che la portava a stare lontana da questi fantasmi.
Il colpo di grazia era stato la nascita di Michela, che non era stata voluta da lei, ma da Mattia. Questo nuovo ricordo la indusse a riprendere il filo del discorso con se stessa.
“Speravo di non avere figli, anzi lo desideravo con tutto il cuore. Quindi pretendevo di avere rapporti protetti, non potendo prendere la pillola. Però è successo lo stesso a venticinque anni e fu per me un trauma che ha minato per sempre il mio equilibrio interiore”.
Non lo aveva mai perdonato, tanto che i loro rapporti dopo la nascita sono diventati sempre più freddi e radi fino a essere inesistenti. Aveva amata Michela senza trasporto, per lei era rimasta sempre un’estranea.
“Quante lacrime ho versato di nascosto. Quante volte avrei voluto che non fosse lì” ricordava in questi momenti.
Non aveva mai confessato a nessuno l’avversione verso la figlia, anzi si sforzava di dimostrare pubblicamente tutto il suo affetto.
Michela aveva avvertito questa sensazione di risentimento e si era legata profondamente al padre. Di questo ne era stata consapevole a quel tempo, ma tutto sommato non le era dispiaciuto, perché intimamente non avvertiva quell’affetto materno del quale aveva sempre sentito parlare.
Ricordava che, quando la figlia aveva avuto i primi innamoramenti, si confidava col padre anziché con lei, che si considerava estranea ai problemi da adolescenti e che aveva fatto di tutto per evitare di esserne coinvolta.
Era stato Mattia che le aveva spiegato come sarebbe diventata donna, quali rapporti avrebbe avuto coi compagni e quali precauzioni doveva prendere.
Lei invece era stata assente in quel periodo delicato di Michela durante il passaggio da bambina a ragazza.
Michela ne aveva sofferto molto, anche senza dimostrarlo apertamente. Ne era consapevole anche se  non avvertiva alcun senso di colpa.
“Non sono stata una buona madre. Non volevo avere figli, perché ero terrorizzata dai nuovi sacrifici che mi aspettavano. Così ho perso sia il marito, sia la figlia”.
In effetti non aveva fatto nulla per tentare di ricucire le lacerazioni tra lei e Mattia. Aveva preferito lasciare che la situazioni diventasse inconciliabile senza alcun rimorso, come se avesse voluto vendicarsi di un torto subito al momento del matrimonio.
Una lacrima scese sul viso di Laura.


Capitolo 3


Milano, venerdì 13 aprile, 2006. Ore 9
Mattia era, come al solito, nel suo ufficio, posto nel cuore di Milano. La stanza ampia e luminosa di forma quasi quadrata era arredata con gusto. A lui piaceva circondarsi di mobilio sobrio ma di pregio e costoso, combinando il moderno con qualche pezzo di antiquariato.
Si guardò intorno compiaciuto su come mobili e oggetti era stati mescolati armoniosamente. Era quasi un rito il suo, quando arrivava in ufficio. Il senso del bello era parte del suo DNA. Per sua fortuna non aveva mai avuto preoccupazioni economiche, perché i suoi genitori erano persone benestanti da molte generazioni. Era cresciuto in un ambiente familiare che gli aveva trasmesso tra i valori primari anche la sensibilità verso tutto quello che era elegante e raffinato.
Una grande scrivania di radica scura era collocata quasi al centro ben visibile a chi entrava. Era un pezzo unico, costruito per lui su misura da Cassina, come il mobile basso posto alle spalle della poltrona Frau Forum Collection President di pelle nera. Mattia aveva visto una fotografia di un tavolo da ufficio su una rivista di design e aveva deciso di commissionarne la replica ad un artigiano famoso. Gli era costata un’autentica fortuna, ma l’effetto visivo era veramente straordinario. Faceva accomodare i clienti su comode poltroncine in pelle nera, J.J. di B&B Italia.
Un’immensa vetrata sulla sinistra, attraverso la quale si accedeva al terrazzo, rendeva luminoso l’ufficio. La vista sui tetti di Milano e sui cortili nascosti era uno spettacolo insospettabile, come le rare giornate di cielo terso che consentivano di osservare le montagne quale sfondo naturale della città. In quelle occasioni sembravano che fossero lì, vicinissime pronte per essere afferrate con le mani. Un tappeto persiano di lana dell’antica manifattura di Kum, annodato a mano, stava sotto la scrivania coprendo gran parte del pavimento di rovere non trattato. Era un autentico pezzo di antiquariato. Più di un amico scuoteva il capo vedendolo calpestato e offeso da tanti piedi. «Sei matto,» dicevano «vale una fortuna e tu lo tratti come uno zerbino qualsiasi!»
Però sorrideva e non replicava. Per lui andava bene così. Quello che gli piaceva veniva usato senza pregiudizi o timori che si rovinasse. Come per il tappeto.
Un lampadario Esprit di Venini, tutto cristallo e metallo, pendeva dal soffitto. Era splendido quando le lampade erano accese, facendone brillare il disegno a forma di tante stelline.
Mattia continuò l’esame dell’ufficio come se fosse la prima volta che lo vedesse. Ruotò lo sguardo verso l’angolo a destra, dove stava un tavolo rotondo di noce col piano intarsiato a formare una scacchiera e quattro poltroncine stile Luigi Filippo ricoperte di raso rosso. Tavolo e poltroncine, della prima metà dell’ottocento, erano stati acquistati per pochi soldi da un antiquario di Arezzo insieme al quadro di scuola bolognese del seicento appeso sulla parete.
Lui diceva sempre agli amici «E’ stato un autentico colpo di fortuna!». Dopo un accurato restauro erano tornati allo splendore originale. Un antiquario, uno dei tanti che frequentava abitualmente, era arrivato ad offrire oltre 30.000€, che lui aveva cortesemente e risolutamente rifiutato. Non gli interessava il denaro, che ne aveva in abbondanza, ma gli oggetti in sé.
“Questi pezzi li ho comprati col primo bonus dell’IBM e ormai fanno parte della mia vita. Non riuscirei a privarmene” diceva col sorriso impassibile sulle labbra.
Alle sue spalle stava appeso un grande quadro moderno dai colori forti, a cui era particolarmente affezionato. Conosceva l’autore, Gabriele Amadori. Era quasi di famiglia. Ne aveva diversi, compreso questo, che suo padre gli aveva donato in occasione del matrimonio. A Laura non piaceva, perché diceva: «Mette angoscia ogni volta che lo guardo». Fu il primo pezzo con il quale iniziò ad  arredare l’ufficio con grande sollievo della moglie che lo vide sparire da casa. A parte il prezzo della quotazione, che considerava puramente venale, per lui aveva un valore incommensurabile non quantificabile.
Mattia era un professionista di fama e ricercato, senza problemi economici. Le commesse non mancavano, anzi doveva rifiutarne più d’una perché non sarebbe stato in grado di garantirne i risultati attesi. Si era dato un codice etico stringente sulla qualità delle prestazioni professionali. Preferiva un ordine in meno, piuttosto che eseguire un lavoro approssimativo. Non percepiva la necessità di assumere tutti i lavori solo per accrescere il conto in banca. Questo era molto apprezzato dai clienti, come garanzia di professionalità e di esito positivo. Le richieste fioccava, molto al di sopra delle sue capacità di soddisfarle.
Il rito di osservare gli arredi lo faceva tutte le mattine. A volte si ne domandava le motivazioni, senza trovarne le risposte. Neppure questa mattina le avrebbe scoperte, perché i suoi pensieri erano concentrati su altri argomenti.
Arrivato in ufficio verso le nove come al solito, cominciò a riflettere sullo stato della vita privata, osservando le fotografie di Laura e Michela incastonate in una cornice d’argento.
Si sentiva angosciato e voleva meditare su loro, su se stesso e sulla vita familiare in generale, senza essere distratto da eventi esterni. Sollevò il telefono e disse: “Anna, per un’ora non voglio essere disturbato”.
Anna era la storica segretaria, assunta molti anni prima in occasione dell’apertura dell’ufficio. Aveva all’incirca l’età di Laura, di corporatura minuta, non appariscente ma ancora attraente per niente sfiorita. Qualche filo bianco era mascherato dai colpi di sole. Era per Mattia una persona fidata alla quale non avrebbe mai rinunciato. Quando ebbe il figlio, le disse: «Anna, non preoccuparti, quando vorrai tornare, il posto rimane tuo».
Lei lo aveva ripagato con una devozione fuori del comune, forse ne era anche segretamente innamorata.
“Dottore,“ rispose la segretaria, ma venne interrotta e ripresa immediatamente da Mattia: “Quante volte te lo devo dire che non voglio essere chiamato dottore?”
“Mi scusi, Mattia, ma è più forte di me. Le ricordo che alle 10 ha l’appuntamento con il Dottor Romani. Alle 11 con l’Ingegnere Martini ed a mezzogiorno con Alberto, con il quale deve fare il punto sul progetto ‘Rischio’”.
“Sì, quando arriva il Dottore, lo fai attendere nel salotto rosso con una scusa qualsiasi. Telefona all’Ingegnere per spostare l’appuntamento alle 12. Se non può, fissane un altro per una giornata diversa. Guarda l’agenda per il giorno utile. Per Alberto organizza un pranzo di lavoro, al quale desidero che partecipi anche tu, se non hai altri impegni. Se Alberto non può, prenota ugualmente un tavolo per noi”.
Anna rimase in silenzio per un attimo, riflettendo sull’invito al ristorante. Era la prima volta che le faceva una proposta del genere: “In quasi venti anni di lavoro non mi ha mai invitato a pranzare con lui, né a partecipare a qualsiasi riunione. Perché dovrei rifiutare? Oggi non ho nessuna voglia di tornare a casa. Tanto sarei sola. Quale motivo l’ha spinto a chiedere la mia presenza? Non riesco proprio a immaginarlo”.
Dopo una pausa di silenzio per riflettere sull’invito del tutto inaspettato riprese a parlare.
“Ho recepito le sue disposizioni. Ben volentieri pranzo con lei. Prenoto al Don Giovanni o gradisce un altro ristorante?”. Anna cercava di occultare l’ansia che la proposta le aveva trasmesso.
“Va benissimo. Quindi niente telefono, né persone. Fino alla 10 e 30 non ci sono per nessuno”.
Tornò a guardare le fotografie appoggiandosi al comodo schienale della poltrona.
Adesso poteva concentrarsi su di sé e ripercorrere un tratto della vita.

Capitolo 4


Mattia si era laureato in Matematica tra la sorpresa di tutti, amici e professori, poiché pensavano che avrebbe scelto giurisprudenza o filosofia.
Aveva una dialettica brillante e pronta, era un leader nato con una mente agile e pratica. Era in grado di analizzare un problema velocemente trovando le soluzioni più ingegnose tanto da meritare ammirazione e rispetto da tutti. Quindi tutti scommettevano che al termine del liceo classico sarebbe diventato un avvocato ricercato e famoso oppure un grande pensatore. Lui spiazzò tutti scegliendo la facoltà di Matematica.
Gli mancavano ancora due esami e la tesi, quando tramite il professore di calcolo numerico venne contattato da una grande azienda multinazionale, per entrare a fare parte dell’organico. Accettò l’offerta sotto forma di stage, dopo la laurea venne assunto in forma stabile.
Affiancava i responsabili commerciali e del marketing nelle trattative più difficili e complicate trovando le soluzioni applicative più idonee. Rapidamente bruciò le tappe scalando nell’azienda posizioni sia in termini economici che professionali.
Dopo cinque anni, complice una ristrutturazione, che lo riposizionava nell’ambito della consulenza, decise di aprire uno studio professionale di informatica.
Complici gli ottimi rapporti con i responsabili commerciali dell’IBM ottenne da loro all’inizio diverse commesse, facendo decollare il suo fatturato. Col tempo imparò a camminare con le proprie gambe perché il lavoro non mancava, anzi era troppo, tanto da costringerlo alla rinuncia di diversi contratti vantaggiosi per evitare brutte figure.
Guardava il viso di Laura e pensava: “Prima del matrimonio era una donna veramente eccezionale, poi lentamente siamo diventati due estranei. Ormai sono mesi che ci scambiamo a malapena un saluto. Non so che cosa fa, dove va, chi frequenta. Forse l’ho trascurata? Forse non ho capito il suo dramma? Dopo qualche anno ha avuto delle crisi improvvise quando si trovava negli spazi aperti. Dapprima ho creduto che fossero conseguenze del suo malessere per la casa, ma poi mi hanno detto che soffriva di agorafobia. Quante volte mi hanno consigliato di abbandonarla al suo destino, ma io mi sento in debito con lei. Poi è la madre di nostra figlia. Ho fatto l’impossibile per starle accanto, perché sentisse il calore della mia presenza, ma gli effetti sono stati insignificanti. Sono convinto che la nostra separazione avrebbe prodotto su Michela un trauma ancora maggiore e più pesante di quello sopportato per il disinteresse di Laura”.
Pensava alla figlia tanto voluta da lui, quanto trascurata da lei.
Ricordava con dispiacere quando Michela ebbe la prima mestruazione: aveva dovuto lui incaricarsi di spiegarle, che questo era naturale e che da quel momento era diventata una donna fertile.
Poi le spiegò quali attenzioni doveva prendere nei rapporti con gli altri ragazzi e quali rischi poteva correre, tanto che un giorno disse: “Papà, non capisco perché sei tu a spiegarmi queste cose e non la mamma. Quando ho provato a chiarirmi con lei, si è rifiutata di rispondermi! Le mie amiche mi guardano male, perché dico loro che sei tu a parlarne. Così non discuto più di questi argomenti o almeno non dico da quale fonte attingo le informazioni sul sesso”.
Mattia c’era rimasto male e le rispose: “Vedi, Michela, la mamma ti vuole bene, molto bene, ma non riesce a dimostrartelo. Per questo non riesce a parlarti! Però devi sapere che tutti e due desideriamo che tu cresca felice e serena”.
Era stata una bugia che Michela aveva finto di accettare. Il legame tra padre e figlia divenne da quel momento più stretto, tanto che Mattia divenne il confidente per tutte le faccende di cuore e non solo quelle.
Quello che gli faceva male era l’indifferenza di Laura verso la figlia più che il rapporto freddo e distaccato tra loro. Per quello avevano trovato una forma di coesistenza che permetteva loro di superare i momenti di crisi, ma non era riuscito a trovare qualcosa di analogo per far galleggiare le relazioni tra madre e figlia.
Cercava di capire dove aveva sbagliato, perché si era dimostrato incapace di inquadrare la psicologia della moglie.
“Io riesco a trovare soluzioni ai problemi che mi sottopongono i clienti, ma non riesco a trovare il capo della matassa della nostra unione. Non sono in grado di afferrare quali errori ho commesso e perché li ho commessi. Ho sbagliato solo io oppure abbiamo errato entrambi sovrastimando le nostre capacità o sottovalutando le nostre debolezze?”
Si appoggiò con tutto il corpo al morbido schienale della poltrona socchiudendo gli occhi.
“Ci siamo sposati troppo in fretta senza ponderare bene i problemi connessi alla vita di coppia. Ho avuto la presunzione che lei fosse capace di superare tutto, vivere la nuova realtà con lo stesso spirito che avevo io. Mi sono sbagliato! E di molto!”
Ponendo le mani incrociate dietro il capo, cominciò a fissare il quadro comprato tanti anni prima.
Era di dimensioni generose e rappresentava la Sacra Famiglia in fuga verso il deserto, incorniciato da una cornice antica molto austera ma che si coordinava bene col resto dell’arredo.
Alberto, l’amico antiquario, diceva sempre: “Quella cornice vale più del quadro e, secondo me, è dello stesso periodo. Sarà di scuola bolognese del seicento, ma è una crosta!”
Lui non era d’accordo. “Sarà anche una crosta, ma mi piace. Anzi mi è sempre piaciuto fino da quando l’ho visto esposto su quel banchetto, al mercatino dell’antiquariato e delle robe vecchie di Arezzo”.
Chiuse nuovamente gli occhi e ritornò con la mente a Laura, alle sue paure, alle sue fobie.
“Dopo il viaggio di nozze, che non è stato come immaginavo, non ho capito le sue paure, le sue difficoltà. Non ho fatto nulla per aiutarla a superare il trauma di gestire una casa grande e frequentare l’università con profitto. Però forse il tutto è incominciato durante il viaggio di nozze, anzi prima. Lei aveva paura a volare e me l’ha detto più volte, ma io le ho imposto quel lungo viaggio verso la Nuova Zelanda”. Fece una breve pausa e poi riprese il filo del discorso.
“Quel viaggio massacrante l’aveva sfiancata fisicamente e psicologicamente. Il giorno stesso del nostro arrivo ho voluto festeggiare con un rapporto, che lei non gradiva e ha subito. Poi per venti giorni siamo stati continuamente in giro senza che io le abbia concesso un attimo di respiro in tutti i sensi. Al ritorno era distrutta, non ce la faceva più e per mesi non abbiamo avuto rapporti. Diceva di essere stanca, di non provare voglia e io non capivo il suo dramma che si consumava sotto i miei occhi ciechi”.
Il film della sua vita scorreva veloce senza interruzioni, mentre pensava. “Devo parlare con Laura per chiarire tutto assolutamente. Ho perso troppo tempo sperando che la situazione si decantasse prima del chiarimento definitivo, ma ora è venuto il momento e non è più procrastinabile”.
Stava percependo che la tattica attendista, che aveva tenuto fino a quel momento, non solo non aveva prodotto frutti apprezzabili, ma aveva trasformato una situazione rimediabile in una frattura permanente. Quindi era arrivato il momento delle spiegazioni, anche se questo sarebbe sfociato nella rottura definitiva.
Si riscosse dai pensieri che lo opprimevano, guardò l’orologio e sollevò il telefono: “Anna, è arrivato il Dottor Romani? Lo puoi fare accomodare. Sono pronto a riceverlo”.

Capitolo 5


Milano, mercoledì 11 aprile, 2006. ore 20.00
Silvia si appoggiò alla sedia, dopo aver inviato il messaggio. Lo visualizzò ed aprì l’allegato.
Le tornò alla mente il nome latino di quel fiore, che il padre le aveva insegnato tanti anni prima: era Petunia hybrida, una pianta ricca di infiorescenze.
A pensarci un po’, Silvia conosceva anche il nome scientifico di quasi tutte le piante che popolavano la casa e il vivaio che il padre, Riccardo, aveva fondato sulle colline della Brianza.
Sulla scrivania teneva un bonsai, un acero rosso. Da tanto tempo non gli dedicava un po’ di cura e solo ora notava che era stato potato. Doveva essere stata Sofia, perché sicuramente la madre non si sarebbe preoccupata della vita della pianta.
Elisa, la madre, si era chiusa a riccio in un silenzio quasi assoluto dopo l’abbandono di Riccardo una decina di anni prima. Si occupava apparentemente delle due figlie, Sofia la maggiore e Silvia la minore, nella realtà di tutti i giorni, ma ormai era lontana da loro come da chiunque altro.
La sorella aveva un carattere molto simile a quello del padre: piena di sole, di idee, era la figlia più amata, almeno questo appariva agli occhi di Silvia. Lei in breve tempo accettò la separazione dei genitori, vivendola come un distacco di lui dalla madre invece che da loro, senza perdere la speranza di vederlo nuovamente sereno come era sempre stato e come lo ricordava in ogni momento.
Questo invece non fu accettato da Silvia. Quando Riccardo se ne andò di casa, lei aveva solo tredici anni e fu un trauma doloroso, che non si cicatrizzò mai. Anzi divenne una ferita sempre più dolorosa.
Ricordava quel periodo nero della sua esistenza con rabbia sorda.
“Non ho mai approvata la separazione tra i miei genitori. L’ho considerato un vero tradimento che mi ha colpita in prima persona, anche se ogni due settimane l’ho incontrato trascorrendo con lui il fine settimana. Ma in realtà non era più come prima, quando allegro e sorridente entrava in casa e mi prendeva in braccio baciandomi e facendomi volare intorno a lui. Gridavo come per spavento, ma ero felice di essere là in alto sopra la sua testa”.
Sentiva una ferita non sanata dalle tante parole che non le erano state dette, perché era troppo giovane per capire. Come la madre, scelse il silenzio e la solitudine lasciando dentro di sé quell’amore mozzato e smozzicato a macerare l’anima. Negli anni aveva imparato a parlargli del nulla, aveva deciso di conversare solo del vento e della pioggia, aveva racchiuso in sé il desiderio di essere se stessa, ignorandolo. Raggiunti i diciotto anni, aveva smesso di passare i weekend con lui. Da quel momento aveva interrotto ogni rapporto. Per lei era cessato di esistere. Era come se fosse stato morto.
Poi l’aveva quasi dimenticato o meglio aveva preso la decisione di non pensare più a lui. Quegli anni dell’adolescenza perduta stavano prendendo altre forme, per emergere alla luce ora che era adulta.
Piccola, schiva aveva attraversato il liceo senza che nessuno la notasse. In fondo non le dispiaceva sparire negli angoli e nell’anonimato. Aveva scelto il liceo artistico, come la madre. I suoi disegni parlavano al suo posto attraverso i fogli 50 x 70 di colore avorio: i tratteggi perfetti, il rosso pastoso della sanguigna. Si era iscritta l’università per diventare una grafica, ma aveva capito ben presto che non sarebbe approdata a nulla. Percepiva l’irrequietezza dell’anima, quel senso di astio verso gli uomini, la solitudine coltivata con lo stesso amore applicato alle piante di casa. Questo distacco dalla realtà quotidiana le impediva di concentrarsi negli studi, che languivano in attesa di essere abbandonati.
Aveva ventuno anni quando incontrò Laura e il teatro. In quel preciso istante tutto cambiò, assunse altre forme che non aveva compreso prima.
Era una domenica pomeriggio quando Silvia la vide per la prima volta. Laura aveva organizzato uno stage gratuito per far conoscere la nuova scuola di teatro che dirigeva. Ricordava benissimo come fosse stata notata tra gli aspiranti attori, quando lei si era soffermata per un attimo a osservare i suoi occhi nocciola, il volto pallido e quel fisico minuto come uno scricciolo. Quello sguardo le era rimasto impresso come un marchio a fuoco.
Aveva letto qualche giorno prima un volantino rosso mattone, dove spiccava la foto di una signora che guidava un gruppo in quello che sembrava un esercizio di espressione corporea o almeno questa era stata l’impressione visiva. La catturarono la foto, le espressioni sui visi di quel gruppo di persone. Le era sempre stato detto che quando disegnava aveva un’espressione concentrata e serena. Come loro.
Così prese la decisione di partecipare a quell’incontro di introduzione in un mondo che non conosceva ma non era nemmeno totalmente sconosciuto. Silvia amava le attività relative all’arte in generale. Conosceva qualche rudimento di terminologia tecnica relativa al teatro, essendo cresciuta in un ambiente artistico, ma non se ne era mai accostata in prima persona come protagonista. Quella poteva essere l’occasione giusta per entrare nell’ambiente teatrale.
«Il teatro è letteratura scritta nella carne, nella parola e nel corpo. Per arrivare ad esprimerci attraverso la parola lavoreremo sulle emozioni, sullo sguardo, sul contatto. Il teatro senza il corpo sprigiona solo una piccolissima parte della sua forza. Cercheremo in noi stessi e nel gruppo che si sta già formando, anche se ancora non potete rendervene conto, l’espressione di quella forza». Queste erano state le prime parole pronunciate da Laura in quella circostanza. Non le avrebbe mai dimenticate, perché le erano rimaste impresse nella mente in maniera indelebile.
Silvia eseguì con paura mescolata a curiosità gli esercizi di fiducia e di contatto che servivano a creare il gruppo, a generare aggregazione tra individui differenti. Non amava guardare fisso gli occhi del compagno, perché le sembrava violare la privacy di chi le stava di fronte. Mentre l’altro, per la tensione e il disagio fin troppo evidente che lei trasmetteva, scoppiava a ridere, allora distoglieva subito lo sguardo, rompendo l’incanto del momento. Comprendeva che l’atteggiamento non era coerente allo spirito di gruppo, ma sperava col tempo di riuscire a completare la prova.
Quando Laura diede inizio alle prove di movimento ad occhi chiusi, Silvia, che si cimentava in tutti quelli proposti, cominciò a posizionarsi sempre più vicina a lei, per seguire meglio le sue istruzioni. Ricordò che era appena iniziato l’esercizio, quando dopo qualche secondo li aprì con l’affanno nello sguardo. Guardò Laura, che sorrise e le fece cenno di chiuderli nuovamente con fiducia, e così fece.
Gli altri movimenti, il sentire opprimente quella perdita dei punti di riferimento, quella sensazione sconvolgente di assenza corporea erano un bagaglio di esperienze che rischiava di turbare il suo già precario equilibrio psicofisico. Silvia però aveva avvertito la mano della sua guida che la teneva saldamente, le accarezzava il viso, le massaggiava la fronte. Riemerse dal buio con lo sguardo di chi aveva provato a sfidare se stesso e aveva fallito.
Laura le disse di sedersi e di aspettare il prossimo esercizio, se si fosse sentita nelle condizioni di eseguirlo.
“Non ci devono essere forzature, tutto deve sembrare naturale, anche se questo ti sconvolge psichicamente” le aveva detto.
“Riuscirò mai a fare questo?” le chiese osservando il sorriso di Laura che la rassicurava. E così con grande gioia riuscì a superare quel momento critico.
Ricordò il giorno del primo esercizio di contatto di gruppo, il calore immenso di tutti corpi che ormai respiravano all’unisono. Arrivò la sensazione di non potersene andare, ma per la prima volta provò ad appoggiarsi a quell’intrico di braccia e gambe senza remore o paure. Percepiva concretamente che lei l’avrebbe protetta. Si annullò in esso, ascoltando il proprio respiro, e quello dei compagni. Alla fine dell’esercizio spontaneamente abbracciò la compagna più vicina che l’aveva sorretta. Cominciò a piangere dopo tanto silenzio.
Lo stage fu talmente entusiasmante che scelse di iscriversi per le emozioni ricevute da quella figura che l’aveva avvinta e stregata. Sentiva che non poteva rinunciare alla sua vicinanza.
 
Capitolo 6


Silvia continuava ad osservare il bonsai senza vederlo, aveva lo sguardo perso nel vuoto e la mente assente che vagava libera senza riferimenti precisi, mentre attorno a lei calava la notte.
Il monitor del computer continuava a lampeggiare, l’altoparlante a segnalare con un bip che un nuovo messaggio era arrivato, ma lei non si curava nient’altro che dei suoi pensieri, delle sue paure, dei suoi sentimenti, della sua vita.
«Perché ho cercato Laura? Perché ho voluto avere quelle effusioni intime con una donna?»
Erano le domande ricorrenti che da molti anni la tormentavano senza una risposta precisa ed esauriente. Però erano lì e premevano per avere un chiarimento che tardava ad arrivare.
Perché odio gli uomini? Perché non voglio avere rapporti con loro? Perché mi sento appagata solo quando mi tocco il sesso, il seno, quando mi masturbo? Con Laura è stato meraviglioso. Le sue mani, le mie mani alla ricerca del piacere hanno donato appagamento e hanno ricevuto passione. Sentivo l’orgasmo salire libero dentro di me come un urlo liberatorio a lungo represso.
Cercava la risposta dentro di sé, perché desiderava amare una donna e non un uomo, ma questa non riusciva a scaturire dalla mente, rimaneva occulta e ignota ai suoi occhi. Non c’era una spiegazione razionale, perché era stato il suo corpo a decidere in questo senso e non la mente.
«Avevo diciassette anni quando persi la verginità con quell’uomo, che aveva molti anni più di me ed era sposato. L’avevo cercato perché speravo di guarire il mio malessere verso il mondo maschile. Invece mi ha fatto sentire una puttana, io che volevo solo sentirmi donna. Lui era distante, non aveva calore, non aveva tenerezza, mi ha fatto schifo. Se quello era il tanto decantato amplesso, è stato un fallimento doloroso sia fisicamente sia psicologicamente. Ho provato solo dolore. Ormai quello che è stato non si può più modificare».
Lui l’aveva cercata ancora, ma lei aveva risposto che non le interessava proseguire la relazione. Da allora le sue fantasie contemplavano solo donne. Però si sentiva intimidita nel farsi avanti e le intenzioni erano rimaste nel limbo dei desideri. Solo fantasie erotiche cullate nel sonno della notte.
«Perché?» era il ritornello che frullava nella testa di Silvia.
Provò a concentrarsi sui motivi di questa inclinazione sessuale e forse qualcosa stava riaffiorando tra i ricordi. Però non era certa che ne fosse stata l’origine.
Ricordava vagamente, era un flashback incerto e sbiadito di bambina. Aveva avuto sì e no cinque o sei anni, quando una notte si era svegliata, perché sentiva delle voci nella casa. Venivano dalla camera dei genitori. Si alzò silenziosa, perché non capiva cosa stavano facendo e dicendo. Al buio uscì dalla stanza e si avvicinò alla porta, che era appena socchiusa. Non si vedeva nulla, ma udiva parole e rumori.
Ascoltava dei respiri affannosi e la voce della madre che diceva: “Basta, mi fai male. Ti odio!” e ne sentiva i singhiozzi, mentre dei gemiti accelerarono per poi diminuire e cessare. Solo un pianto confuso e un ansare concitato aleggiava nella stanza mentre era lì ad origliare senza capire cosa stava succedendo. Un dubbio che si portò dentro di sé per anni fino a quando i genitori non si separarono.
Altri ricordi meno confusi le tornarono alla mente.
«Notai che da quella notte mia madre era cambiata. Non capivo bene come, ma non era più la stessa.  Altre notti finsi di dormire e restai sveglia, ma non sentì mai più rumori strani provenire dalla loro stanza, ma solo il respiro di chi dormiva. Di questo non ne ho mai parlato con mia sorella. Alcuni anni dopo quell’episodio ne ricordo un altro. Una sera la mamma andò a letto da sola e il papà uscì ritornando il giorno dopo. La mamma era visibilmente furiosa, ma non litigò o almeno non lo fece in nostra presenza. I miei genitori erano sempre più distanti tra loro senza però farci mancare l’affetto. Sentivamo che qualcosa non andava tra loro, ma non ne capivamo il motivo. Ormai eravamo grandi per percepire il distacco e spesso ne parlavamo tra noi, ma senza giungere a conclusioni precise. Poi un giorno nostro padre non venne più a casa. La mamma ci disse che se ne era andato via. La rottura divenne ufficiale e cominciarono i fine settimana con lui».
Silvia aveva tredici anni quando decise che aveva portato dentro di sé per troppo tempo il segreto, mai rivelato a nessuno, su quella sera.
“Mamma, “chiese qualche mese dopo la separazione dei genitori, “una notte di tanti anni fa ti ho sentita piangere, mentre papà ansava rumorosamente. Cos’è successo? Perché piangevi? Non ho mai avuto il coraggio di chiedertelo fino ad ora”.
La madre la guardò con intensità, deglutì vistosamente e pensò a una risposta per questa figlia, che le sembrava ancora una bambina, anche se ormai da più di un anno aveva il ciclo del mestruo regolare.
“Silvia, devi sapere che marito e moglie hanno rapporti sessuali regolari per soddisfare il piacere reciproco. Lui la penetra mentre lei sente un gran calore salire dentro di sé. La vagina si inumidisce per la passione facilitando l’ingresso del membro dentro di lei. Se però è secca, allora lei prova dolore piuttosto che piacere. Questo capita quando la moglie non sente lo stimolo sessuale o non è eccitata nella maniera corretta. Il marito deve capirlo ed evitare il rapporto, che è fonte di una sensazione molto dolorosa. Quando quella sera piangevo, tuo padre mi prese contro la mia volontà perché il mio sesso era secco. Provai dolore e rabbia e piansi per questo. Tuo padre è sempre stato molto dolce con me, ma quella sera fu violento. I motivi non li conosco, né sono mai riuscita a conoscerli”.
Silvia abbracciò la madre, mentre dentro di sé montava una sorda rabbia verso il padre e gli uomini in genere. Mentalmente promise che non avrebbe sopportato che un uomo la possedesse contro la sua volontà.
Questo pensiero e l’obbligo di trascorrere col padre i fine settimana accrebbero un sentimento di astio verso di lui, mentre osservava la madre che sempre più si racchiudeva a riccio su se stessa. Però nel contempo, senza che un motivo valido la spingesse, percepiva sempre più intensa l’attrazione verso le donne senza che riuscisse a focalizzare cosa era e il perché di questa sensazione.
Quei sentori, che la portavano alla ricerca di una persona del suo stesso sesso, erano maturati lentamente giorno dopo giorno finché non si era concretizzata col trauma della perdita della verginità.
Solo in quel momento aveva percepito chiaramente che lei non avrebbe potuto mai amare un uomo, ma solo una donna.
Adesso tutto era stato risucchiato in superficie, mentre le appariva chiaro che non era l’effetto di quei ricordi infantili a spingerla verso una persona di sesso femminile, ma era un fatto naturale.
Lei sarebbe stata così, anche se i suoi genitori non si fossero separati.
Dopo quella confessione tra madre e figlia non ci fu più nessun dialogo su questi argomenti, mentre Silvia voleva crescere in fretta per andarsene da casa, vivere la sua vita da sola. Con chi? Questo era il suo grande dubbio: con chi? Con un uomo? No, dopo avere ascoltato il suo istinto. Con una donna? Non lo sapeva, ma non si sentiva ancora pronta.
Però continuava a stare in questa casa con la madre ridotta ad un fantasma silenzioso e la sorella, che sembrava ignorare tutto e vivere felice.
E non vedeva prospettive immediate come soluzione ai suoi problemi esistenziale o almeno questo era il suo pensiero.
Forse Laura, ma forse no.
Comunque doveva aspettare ancora e l’attesa le metteva tensione, ansia.


Capitolo 7

Brianza, venerdì 13 aprile 2006. Ore 9
Elisa nel buio della dependance, che aveva eletto come casa, rifletteva sui motivi che l’avevano trascinata nella condizione attuale. E si domandava cosa aveva sbagliato nella vita.
Ormai era più prossima ai cinquanta che ai quaranta e sapeva che era in un’età dove la bellezza era un optional che contava relativamente poco. Quella era sfiorita dieci anni prima con la separazione da Riccardo. Era di statura nella media, coi capelli ricci e scuri. Gli occhi non erano molto espressivi per l’azzurro chiaro senza luce. Il corpo non era mai stato appariscente, ma adesso denunciava le offese del tempo.
Era stata una giornata noiosa. Niente uscite, solo lavoro d’ufficio a scrivere, a riordinare schede. La sua presenza non era stata notata da nessuno, né uomini, né donne. Questo non le dispiaceva, ma in un certo senso la irritava. Le sembrava essere tornata indietro nel tempo, quando frequentava la scuola media.
In quel periodo della sua esistenza non aveva avuto corteggiatori. Questo l’aveva infastidita non poco, perché le compagne avevano avuto sempre nugoli di ragazzini brufolosi intorno e lei sempre sola. Un altro cruccio l’aveva tormentata: il seno, che era minuscolo, quasi invisibile, mentre le compagne ne avevano in abbondanza, sempre toccato, palpeggiato dai compagni. Allora non capiva quale era il piacere di toccare i seni, i glutei, il sesso ed essere toccate, perché non l’aveva mai provato. E quando lei aveva tentato di farlo su se stessa non aveva ricavato impressioni tali da comprendere il motivo della gioia delle compagne e dei compagni.
“Non che poi sia cresciuto di molto. E’ rimasto sempre di modeste proporzioni”.
Si toccò il seno e non provò nessuna emozione come allora. Però aveva il vantaggio che non si era sformato nel tempo dopo due gravidanze.
“Non so il perché, ma quando penso a me, ritornano sempre questi ricordi. Io provo a cancellarli, ma loro tornano sempre a galla”.
Il carattere timido e chiuso non aveva favorito i rapporti, perché i maschi non la guardavano e dicevano «E’ uno scorfano» come migliore complimento, mentre le ragazze la snobbavano come inferiore. Iniziò a guardare con maggiore attenzione al mondo degli adulti che le sembrava più interessante rispetto a quello dei coetanei. Non aveva mai visto un corpo nudo né femminile né maschile ad esclusione del suo ancora acerbo di adolescente. Le uniche nudità erano le foto e giornaletti hard che circolavano numerosi tra i banchi di scuola. I genitori erano discreti sia nei rapporti di coppia sia nel girare per casa per non turbare la figlia e non parlavano con lei di sesso. Quello che sapeva l’aveva appreso dagli altri ragazzi senza comprenderne bene i meccanismi. Tutto questo le era sembrato macchinoso e poco interessante.
“Mi sono sempre domandata allora, perché i miei compagni parlavano solo di sesso, delle posizioni per fare sesso e di quante volte l’avevano fatto. Mi sembrava qualcosa di nebuloso, avvolto in un’aura di mistero perché il proibito eccitava le nostre fantasie. Ora capisco che molto era immaginazione e poco era realtà. Però sicuramente ho immaginato molto anch’io”.
Elisa aveva fantasticato come poteva essere un uomo nudo nel reale e quali stimoli avrebbe suscitato in lei. La curiosità venne soddisfatta casualmente a quattordici anni una sera di fine giugno. Non riusciva a prendere sonno, quando sentì dei rumori strani provenienti dalla stanza dei genitori. Si alzò e non vista li osservò mentre nudi andavano nel bagno. Quello che la colpì era il membro del padre perché non aveva immaginato che potesse essere così grosso e lungo. Tornata silenziosamente a letto cominciò a sognare confusamente di essere posseduta da un uomo che stranamente somigliava moltissimo al padre. Alla mattina si svegliò coi capezzoli turgidi e duri, con le mutandine bagnate e odorose di un profumo strano.
Continuò a sognare amplessi impossibili perché non aveva idea in quale posizione una donna doveva stare durante un rapporto sessuale.
“Ho anche appagato anche questa curiosità qualche mese più tardi. Ero una ragazzina che usava molto la fantasia, ma allo stesso tempo voleva che questa si tramutasse in qualcosa di concreto! Ero sempre alla ricerca di scoprire qualcosa di nuovo sulla sessualità che in casa era considerato un tabù. I miei genitori erano all’antica e di determinati argomenti non si poteva parlare. Non ero soddisfatta di quello che udivo in classe e avevo le mie ragioni”.
Un giorno sorprese Angela, una ragazza di ventidue anni abitante nel suo caseggiato, negli scantinati con un uomo. Era sdraiata su un tavolo basso con le gambe aperte e penzoloni, con la gonna sollevata e gli slip su un piede. Era sovrastata da un uomo, che identificò come un vicino sposato con due figli. Angela assecondava i movimenti dell’uomo inarcando la schiena cacciando piccoli urli di gioia. Lui ansava rumorosamente mentre si muoveva ritmicamente. Rimase affascinata ad osservare quello che facevano e ad ascoltare rumori e gridolini. Poi spalancò gli occhi, quando lei inginocchiata prese tra le labbra il pene dell’uomo.
“Quella volta mi sono chiesta che gusto c’era in quel gesto. E poi Angela non rischiava di morire soffocata? Ero allibita perché pensavo che lui rischiasse molto a causa dei denti. Ovviamente tutti dubbi legati alla mia inesperienza di allora. Ora mi viene da sorridere a pensarci bene. Ero veramente ingenua. Per quanto tempo? Non ricordo con esattezza, ma non passò molto comunque”.
Adesso sapeva come poteva trasformare i sogni nel reale. Sempre più spesso si trovava bagnata e con quell’odore strano che poi comprese essere gli umori della sua vagina eccitata dalla vista di Angela e dai sogni notturni.
In pochi mesi Elisa si era trasformata da adolescente acerba a ragazza attraente. Agli occhi dei coetanei però era sempre più estranea, sempre più diversa, rimaneva una bambina.
Si era iscritta dopo le medie alle scuole superiori. Era attratta dai monumenti antichi, dai ritrovamenti di reperti e amava il bello. Dotata nel disegno scelse l'Accademia di Belle Arti. In quell’ambiente meno conformista acquisì un’aria di mistero e divenne sempre più impenetrabile ed enigmatica, sfuggente e sensuale. Il corpo emanava un odore mascolino che le donava un fascino tutto particolare. Gli occhi chiari senza luci si illuminavano nel momento in cui incrociava un uomo che le piaceva e come un’ammaliatrice catturava la loro attenzione con il suo sex appeal.
A sedici anni sembrava più matura della sua età tanto da attirare le attenzione di uomini adulti o comunque con molti più anni di lei. Però per paura o condizionata dall’educazione familiare aveva sempre rinunciato a fare sesso. Si era fermata sempre prima.
“Più che paura non mi sentivo pronta al grande passo perché non avevo trovato l’uomo giusto”.
Elisa ricordava con un pizzico di nostalgia quei momenti lontani una vita e come a poco a poco era andata a scoprire la propria sessualità.
Quasi tutte le notti esplorava il monte di venere coperto da pelli soffici e lunghi per poi scendere con le dita tra le grandi labbra fino all’imene che avvertiva elastico e morbido. Provava piacere nel sentire quella membrana flettersi dolcemente sotto la loro pressione.
Ebbe il primo rapporto a diciassette anni con un uomo sposato di circa quaranta anni. Lo conobbe in un chiosco dei gelati una sera di luglio, in cui aveva il ciclo mestruale. Tutti i tavoli erano pieni. Lui stava solitario a gustare una granita, quando lei gli chiese sfacciatamente se poteva sedersi con lui. Le piaceva e avvertiva una forte attrazione. Aveva compreso che il momento fatidico stava per scoccare. Conversarono a lungo, finché si offrì di accompagnarla a casa. Però prima si diressero verso un boschetto fitto e buio lungo il fiume, dove lei perse la verginità. Lui fu molto delicato nel deflorarla tanto che Elisa provò quasi piacere.
Si diedero appuntamento per la sera successiva e così per quelle dopo.
Ci sapeva fare, perché la penetrava dolcemente dopo averla eccitata con lunghi preliminari. Elisa raggiungeva l’orgasmo prima di lui e accoglieva poi felice il suo membro tra le labbra come aveva visto fare tante volte da Angela. Adesso capiva come poteva trarre godimento da quel gesto che aveva trovato assurdo. Adesso si sentiva una donna nel vero senso della parola.
Le compagne a scuola raccontavano ogni giorno scene di sesso e piaceri inesistenti. Un giorno Elisa sbottò con quella di loro che più di ogni altra credeva di esserle superiore: “Si vede che hai fantasia! Racconti di fare sesso completo, ma in realtà non fai altro che pompini”.
“Sta zitta,“ le rispose stizzita la ragazza "sei ancora vergine e non hai mai visto un cazzo!”
"Credi quello che vuoi" chiuse la discussione Elisa, e se ne andò con un sorriso e con il suo segreto.
La relazione durò circa due anni tra alti e bassi, finché non arrivò all’università, quando incontrò casualmente Riccardo.
Era alto e slanciato, capelli biondi ed occhi nocciola e non passava inosservato. Aveva avuto molte relazioni tutte finite nel nulla. Non faticava a trovare una donna, nubile o sposata, che non finisse a letto con lui. Dopo essersi laureato in scienze agrarie aveva trovato un buon posto nel consorzio agrario con uno stipendio dignitoso, che gli aveva consentito di lasciare la famiglia e vivere da solo. La sua camera da letto aveva visto passare molte persone di sesso femminile, ma fino a quel momento non aveva nessuna intenzione di sposarsi o convivere.
Lei aveva diciannove anni e lui nove di più, quando si scontrarono sulla porta della Caffetteria del Corso.
“Scusami,“ disse lui un po’ mortificato, “ti ho fatto cadere il dolce. Posso sdebitarmi?”
“No, grazie“ rispose lei asciutta e risentita, chinandosi a raccogliere la custodia in cui era racchiusa la torta sicuramente ammaccata.
La mano di Riccardo sfiorò leggermente il seno di Elisa mentre si chinava per aiutarla. Un brivido percorse la schiena della ragazza, che alzò gli occhi verso di lui. Lui la fissava intensamente e lei non abbassò lo sguardo, anzi lo continuò a guardare in atto di sfida.
Era annoiata dalla relazione con l’uomo sposato perché si stava trascinando stancamente dopo la fiammata iniziale. Adesso l’uomo, che stava dinnanzi a lei, le piaceva, emanava uno stimolo sessuale incredibile. Se glielo avesse chiesto sarebbe andata a letto con lui immediatamente senza pensarci troppo.
“Quante volte Riccardo mi ha descritto la prima impressione che aveva ricevuto durante quell’incontro. Anch’io ho un ricordo nitido. Un uomo biondo che mi ha eccitato col semplice tocco della mano. Però le parole, che lui non ha detto allora, sono quelle che ho memorizzato per sempre. «Come bellezza non vale niente, ma deve avere il fuoco dentro. Ha un’aria di mistero impressionante. Ha una personalità che ecciterebbe un morto. Un’altra ragazza al suo posto si sarebbe arrabbiata ma lei è rimasta fredda e decisa»”.
Le piaceva ricordarle e le davano lo stesso brivido di allora.
“Riccardo“ disse allungando la mano e lei sorrise rispondendo: “Elisa”. Il ghiaccio era rotto.
“Posso offrirti un aperitivo per rimediare?” Le strinse la mano con un vigore ed una passione che suonò nel cervello come un secondo campanello molto più forte del primo.
“Perché no!” replicò con un tono più morbido e rientrarono nella Caffetteria.
Presero a frequentarsi ed a stare sempre più a lungo insieme.
Elisa chiuse il rapporto con l’uomo sposato e andò a vivere con Riccardo.
I genitori non furono contenti della scelta, perché a quel tempo convivere non era visto di buon occhio, ma non poterono opporre resistenza.
Rimase incinta di Sofia sei o sette mesi dopo, ma non si sposarono subito. Lei voleva smettere di frequentare l’università e iniziare a lavorare, perché non trovava più gli stimoli giusti. Riccardo la esortò e la pungolò a proseguire fino alla laurea in lettere con indirizzo artistico.
“E’ stato un bene, perché ora sarei molto rammaricata. Questa è stata una delle poche cose buone che Riccardo mi ha lasciato in eredità”.
Lei aveva un buon talento artistico ed era un’appassionata d’arte. Aveva sperato di fare l’archeologa, ma ora con una figlia non era certamente la professione più adatta.
Nacque poi Silvia, prima che il matrimonio riparatore venisse celebrato col solo rito civile.
Trovò qualche tempo dopo un posto presso la soprintendenza della Lombardia, dove lavorava tuttora. Però si sentiva in gabbia con due figlie ed un marito che ogni tanto la tradiva, perché tutti i sogni erano svaniti col progredire del tempo.
“Facevamo quasi tutti i giorni all’amore con grande soddisfazione reciproca. Poi dopo la nascita di Silvia qualcosa si ruppe tra noi. Io sono cambiata mentre lo stimolo sessuale per me è diventato una specie di incubo e poi sempre più tiepido”.
Lui non amava fare sesso in maniera protetta e lei aveva una paura folle a prendere la pillola od usare lo iud. Quindi a letto cominciarono a litigare perché lui voleva avere dei rapporti, mentre lei lo respingeva con maggiore frequenza e decisione.
“Il terrore, che non sono riuscita mai a confessargli, è stato di rimanere incinta per la terza volta, perché non sarei stata in grado di superare questo evento. Quando Silvia mi ha domandato dieci anni fa i motivi del mio piangere una sera, aveva semplicemente assistito all’ennesimo litigio per un rapporto non desiderato”.
Con una punta di tristezza Elisa ricordava l’amore che Riccardo provava per lei. Però lui al tempo stesso si sentiva tradito dai suoi rifiuti e cominciò a frequentare altre donne.
La situazione precipitò finché un giorno le disse che era stanco di lei e se ne andò.
“Così finalmente starai in pace a letto!” le disse un po’ acidamente.
Elisa era diventata silenziosa e chiusa dopo l’abbandono, incattivita con se stessa e verso Riccardo. La separazione si consumò burrascosamente senza possibilità di ricucire la relazione.
Adesso lei viveva nel suo mondo chiuso tra il lavoro e la passione per la fotografia come se quello che stava intorno scorresse via senza lasciare traccia, analogamente all’acqua del fiume che fugge verso il mare. Si era inaridita nei pensieri e negli affetti, senza che qualcosa riuscisse a scuoterla dal suo torpore.
Non c’era stagione che la trattenesse fra quelle quattro mura, nemmeno pioggia, neve o sole. Per lei erano le sbarre di una prigione dalla quale voleva evadere e restare sola con se stessa.
Elisa chiuse gli occhi per scacciare quelle immagini e quei ricordi dolorosi, che la tormentavano da ormai dieci anni. Eppure con Riccardo aveva vissuto una parentesi felice, che lei aveva voluto chiudere dopo la nascita di Silvia.
Se la relazione era andata in frantumi, anche lei doveva assumersi le sue parti di colpe.
E con questi pensieri si addormentò.

Capitolo 8


Ai primi di aprile Elisa era uscita nel vapore del mattino, già toccato dai primi raggi di sole, come era solita fare quando non doveva andare al lavoro. Si diresse in campagna. In poco più di trenta minuti di cammino solitario raggiunse attraverso un sentiero una collina bassa circondata da vigne. A quell’ora la radura era silenziosa di voci umane. Spesso la tranquillità del luogo accoglieva i suoi passi in ogni stagione dell’anno. Era il suo rifugio segreto.
Elisa osservava ogni dettaglio. Il fruscio di qualche piccolo animale nell’erba, gli uccelli che cominciavano i loro canti nascosti tra le prime fronde degli alberi. Godeva del respiro della collina sul viso, ancorché freddo quella mattina. L’inverno era finito ma i suoi occhi non erano ancora sazi di guardarlo.
Amava il freddo e le dispiaceva che il clima fosse divenuto più mite negli ultimi tempi, sottraendole in parte la possibilità di ammirare le opere d’arte che la natura scolpiva nel gelo.
Mentre camminava, rifletteva sulla situazione di donna e sulle insoddisfazioni che aveva dovuto subire, osservando la natura ancora assopita che lentamente si stava risvegliando.
«Sono stata troppi anni lontana da me. Presa dall’essere gradita ad altri, che fossero quegli odiosi compagni di scuola, che fossero gli uomini più grandi ai quali mi sono concessa per comprendere che potevo piacere, che fosse pure Riccardo, al quale non interessava nulla di me, di come stavo, di come vivevo la nostra relazione, la nostra vita insieme. Gli uomini credono che i problemi sessuali nascano in camera da letto e lì vengano risolti. Chissà perché non riescono a vedere la sofferenza che ci fa chiudere al mondo esterno. Nei primi anni Riccardo sembrava interessato a me, mi parlava con amore, mi ascoltava. Io non potevo credere di aver conquistato un uomo così bello, così interessante. Invece non l’avevo affatto sedotto. Mi aveva presa per una lupa, come gli altri prima di lui. Invece a me non interessava soltanto la sua carne, avevo bisogno di sentire quanto ero importante per lui. Ho ammesso con me stessa troppo tardi che non era disposto ad alcun sacrificio per starmi vicina. È stato un buon padre, e questo glielo devo riconoscere. Sempre pieno di gioia con le bambine, un po’ troppo poco severo, forse, ma non ha mai fatto mancare nulla a loro. Silvia è come me, è chiusa, non gli somiglia e non lo capisce, anzi lo odia, ma forse solo lo disprezza. Sofia lo adora, vede in lui l’uomo dei suoi sogni. E io non farò mai nulla perché questo rapporto tra loro cambi. Sofia ha preso bene la separazione. Almeno lei. Per Silvia non posso dire altrettanto. Credo che lo abbia assunto come un tradimento. Io non le ho aiutate. Io non ho aiutato nessuno. Ma ne avevo appena per me per sopravvivere. Non so se sono stata, e se sono una buona madre. Non credo. Specialmente per Silvia, che ha così bisogno di qualcuno vicino, che le spieghi quello che vede succedere, anche adesso che è grande. Ma non ho la forza».
Sotto i suoi piedi frusciavano le piante che stavano mettendo fuori timidamente il capo, mentre lei osservava con l’occhio esperto cosa inserire nel mirino della reflex. Quella mattina aveva avuto desiderio di fotografare l’erba bagnata, e la nebbia vinta dal sole. Lasciò che la bellezza di quel luogo le si dischiudesse in particolari che mai aveva notato prima di quel momento. Lei aveva riscoperto dopo un periodo oscuro l’antica passione, messa da parte in quelli che lei chiamava gli anni dell’inganno, ed adesso percepiva che il suo spirito era in pace col silenzio della natura.
La collina era ricoperta di vegetazione spontanea, e appena si scendeva un poco, si aprivano le vigne ordinate, i campi coltivati e i semplici giardini. C’erano ancora dei ricci di castagno in terra, caduti nell’autunno passato, e le foglie nocciola li coprivano e li rivelavano, attraverso il suono che emettevano sotto i passi delicati di Elisa.
Era stata in quella radura in cima alla collina molte volte. E sempre aveva scoperto nuove sensazioni, nuove immagini da fissare nell’obiettivo. Ricordava in particolare un giorno di dicembre di qualche anno prima, in cui aveva nevicato. Si sentiva quasi un lupo nella neve. La sua mente era silenziosa e piena di pace, mentre l’occhio spaziava alla ricerca di qualcosa che nemmeno lei era in grado di riconoscere o di percepire. Però non aveva importanza, perché era la silenziosa serenità che cercava.
Scattò oltre duecento fotografie quella mattina. Era stata felicissima di essere passata al digitale. Non si sentiva una purista e, seppure avesse imparato sulle macchine fotografiche tradizionali, non vedeva per quale motivo non doveva accogliere quell’innovazione tecnologica che le consentiva di studiare più agevolmente le inquadrature attraverso centinaia di scatti. Era un modo per poter scavare in un soggetto fino ad avvicinarsi alla sua anima e a un ideale di perfezione.
La passione per la fotografia era nata in lei a quindici anni, quando un amico di famiglia le aveva insegnato i primi rudimenti dell’arte regalandole una fotocamera a fuoco fisso.
“Quale sensazione di piacevole benessere percepivo, quando il suo corpo era appoggiato pesantemente sul mio, mentre mi spiegava come inquadrare gli oggetti. Sentivo la pressione delle sue mani sui miei piccoli seni, ma non protestavo. Anzi le accettavo con piacere. Non capivo il suo ansare rauco, allora. Pensavo che fosse l’impegno a istruirmi. Come ero ingenua!”
In seguito aveva avuto occasione di approfondire la passione con corsi specifici durante gli anni di accademia. Adesso era diventato un comune strumento di lavoro, quando durante le ricognizioni esterne era alla ricerca di oggetti storici interessanti per la loro schedatura e conservazione.
Elisa vedeva nel sonno scorrere altri frammenti della sua esistenza e nelle nebbie del dormiveglia le era apparsa Silvia, quando in quella mattina d’inverno le disse sorridendo «Divertiti, mamma», mentre l’osservava col semplice cappello, i guanti leggeri e gli stivali per non affondare nella neve.
C’era un tacito accordo che le piaceva ricordare. Silvia sapeva che avrebbe scaricato gli scatti sul computer dicendo, come sempre «Sono tutti brutti, solo qualcuno è un po’ carino». A volte l’aveva chiamata per esaminarli e partecipare alla selezione, ma ultimamente succedeva più di rado per colpa sua. Lei non osava domandare alla madre di farla assistere alla «scoperta» delle foto, come lei chiamava questa operazione, perché aveva compreso che non amava avere qualcuno intorno durante questo rito. “E’ vero. Preferivo essere da sola” e questo la isolava sempre di più.
La fotografia l’aiutava a ritrovare serenità nei momenti in cui sembrava che nessuno la capisse o s’interessasse a lei. Lei amava fotografare la campagna, ma soprattutto disegnare utilizzando le foto come rilievi al servizio dei bozzetti che aveva immaginato. Non aveva una reale necessità del supporto fotografico, perché la manualità e la creatività erano eccellenti. Però si trattava di una specie di esercizio di precisione, che si basava nel riprodurre su carta l’esatta immagine. E ci riusciva senza molte difficoltà.
Coltivava il disegno, dove metteva in mostra un estro spiccato ed originale. In gioventù adorava molto il rosso pastoso e forte della sanguigna, mentre negli anni della maturità aveva cominciato a prediligere l’acquerello e la tempera su tavola con colori più sfumati e morbidi. I suoi paesaggi avevano tinte soffuse e delicate, come i particolari naturalistici. Era un modo singolare per dichiarare al mondo che era cambiata nello spirito e nel fisico.
Sapeva che di nascosto Silvia entrava nel laboratorio, allestito nella dependance. Però fingeva di non accorgersene. Intimamente provava piacere avere cognizione che la figlia sbirciava tra le sue carte. Molti mesi dopo il divorzio Elisa sentì che era tempo di ricostruirsi una vita interiore lontano dai ricordi e dalla famiglia. Così in silenzio aveva cominciato a lavorare alla dependance, adattandola alle sue esigenze, dipingendola a nuovo, e collocando in un angolo un vecchio e comodo divano dove spesso restava a dormire.
Silvia sapeva dove si trovava la madre a riposare tranquillamente nella solitudine del suo mondo. Pensava che forse nella quiete sarebbe riuscita a ritrovare se stessa dopo la separazione, e che non poteva né doveva disturbarla in questo cammino di ricerca e di rinascita.
Quando aveva ripreso a lavorare presso la sovraintendenza dopo un periodo di vacanze forzate per riprendersi dal divorzio, era passata tra gli schedatori, un lavoro poco gratificante. Il fatto di spostarsi per raggiungere le località in cui si erano conservate le opere, il trovarsi sovente a operare da sola nelle antiche chiese, favoriva la concentrazione. Amava quel lavoro, che occupava non moltissime ore della giornata, e la metteva di fronte ogni giorno con manufatti d’arte quasi sconosciuti, che le sue attente analisi contribuivano a riportare alla luce.
Una lacrima scivolò furtiva sulla guancia mentre dormiva.



Capitolo 9

Milano, venerdì 13 aprile 2006. Ore 11
Una ragazza dai capelli rossi si stava dirigendo verso il gradino più basso dell’emiciclo, sistemandosi per ascoltare la lezione di Filosofia della scienza. Era sua abitudine arrivare all’ultimo momento e collocarsi lì al centro dell’aula. Tutto intorno si udiva il gran vociare degli studenti, che non terminò nemmeno con l’ingresso del docente. La sala era gremita senza un posto libero. Era uno dei corsi più seguiti.
Sistemò la montatura metallica degli occhiali, mentre si sedeva proprio di fronte alla cattedra. E si preparò a prendere gli appunti della lezione.
Qualche gradino più in alto due ragazzi la stavano osservando e commentavano il suo arrivo.
“Stai dicendo quella con i capelli rossi e gli occhiali rotondi, sempre sola?”
“Sì, lei. Ah, eccola lì, arriva sempre un po’ in ritardo e finisce seduta sui gradini vicino alla cattedra. Credo che non ci veda un granché ma .. Beh, sì. Insomma non è da buttare, tutto sommato è carina. È dall’inizio del corso che … “.
Luca guardò divertito Davide. “E che ti inventi per scalfire l’ostrica?”
“Non lo so. Pensavo di chiederle qualcosa sul corso. Lei non perde una sillaba di quello che il prof spiega, nonostante il casino che c’è in quest’aula”.
L’amico lo guardò divertito e sorrise come per compatirlo o forse per non demoralizzarlo. Però adesso si dovevano concentrare per ascoltare quello che il docente spiegava. Non era facile per il continuo brusio dell’aula stracolma.
Terminata la lezione, Michela sistemò rapidamente i fogli degli appunti. Si alzò di scatto per seguire la successiva, scontrandosi con un ragazzo, che le era comparso dinnanzi all’improvviso come se fosse sbucato dal nulla.
Per l’urto quello che aveva in mano rovinò a terra. Mentre lui si affrettava a scusarsi per lo scontro involontario, raccolse la Moleskine rossa e dei quaderni a righe.
La ragazza lo guardò innervosita e irritata, sistemando nervosamente la montatura metallica degli occhiali.
“Mi ero fermato un attimo a guardarti mentre riordinavi i fogli” le disse con aria innocente.
Michela, che non era certa di aver capito bene quello che aveva sentito, lo osservò in tralice e stava per replicare stizzita quando lui riprese a parlare.
 “Avrei bisogno del tuo aiuto. Mi mancano gli appunti di giovedì sul ‘Motto di spirito’. Ma a dire il vero non ci ho capito molto finora. Mi potresti dare una mano?”
“Io devo andare” rispose fredda la ragazza.
“Cosa segui?”
“Arte rinascimentale”.
“Dove?”
“In aula 36. Ciao”.
“Scusa, non mi sono presentato. Davide” disse porgendole la mano.
“Michela” ed accennò ad un sorriso stentato, mentre si chiedeva dove posare le carte per ricambiare senza trovare un piano d’appoggio. Si limitò a un cenno della testa.
”Ciao” e si allontanò velocemente verso l’aula dove già stavano proiettando le diapositive.
Michela si sedette mentre sul muro scorrevano le immagini e il docente comparava la pittura del Rinascimento italiano a quella fiamminga del Quattrocento. La prospettiva nei dipinti di Masaccio e Piero della Francesca e la scoperta della realtà naturale nella pittura ad olio del Nord Europa. La Vergine del Polittico dell’Agnello mistico di Gand fece da sfondo all’introduzione sulle fonti antiche che attribuiscono a Jan Van Eyck l’invenzione della tecnica ad olio.
Non era sicura di aver fatto la scelta migliore iscrivendosi a lettere, con indirizzo discipline artistiche anziché a psicologia. Era stata una decisione difficile, tra due passioni altrettanto grandi: gli studi psicologici e l’arte in generale.
Li riteneva due diversi approcci per capire l’uomo e cercare risposte alle proprie domande. Aveva avuto due insegnanti al liceo che le avevano instillato un vero interesse per la letteratura antica e la storia dell’arte.
Tradurre dal latino e dal greco le aveva insegnato a ricercare la struttura che stava sotto i fenomeni apparenti della lingua. La poesia e la tragedia le avevano fatto intuire l’universalità della natura dell’uomo. L’arte l’aveva avvinta con la sua meraviglia, ma poi era rimasta sulla soglia, chiedendosi se veramente voleva approfondire gli aspetti più tecnici di questa disciplina.
Aveva deciso di non scegliere l’indirizzo archeologico ma quello storico artistico perché aveva sentito dentro di sé esplodere la voglia di conoscere la storia e la psicologia che stava dietro l’opera d’arte e non la minuziosa ricostruzione della scoperta dell’opera stessa. «Può essere questo un motivo sufficiente a confermare la bontà della scelta?». Se la stava chiedendo, mentre il docente sottolineava la capacità di analizzare la psicologia dei personaggi che emergevano dai ritratti di Van Eyck.
Aveva fatto molte letture da autodidatta sulla psicologia, fin dal liceo: ‘Il motto di spirito’ di Freud, i saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio. Amava la chiarezza espositiva senza eguali del padre della psicanalisi.
Aveva conosciuto lo junghiano Hillman attraverso l’insegnante di greco, che aveva proposto agli allievi ‘Il mito dell’analisi’, per capire da un punto di vista non strettamente letterario e storico il concetto dionisiaco nella tragedia. In Hillman aveva letto per la prima volta del ‘panico’, che secondo le sue teorie derivava dal nome del dio greco Pan.
L’associazione tra Pan e ‘panico’ fece scattare in lei il desiderio di appuntare ciò che era scaturito nella mente dal concatenamento di concetti casuali. Spesso sentiva questa necessità, quindi portava con sé quasi sempre un piccolo taccuino di pelle nera su cui scriveva ciò che vagava libera nella testa. Regolò la piccola luce che illuminava il quaderno durante la proiezione delle diapositive e aprì l’agenda rossa anziché il solito notes che era rimasto a casa dimenticato nella fretta di uscire.
«Il primo attacco di panico, che ricordo di mia madre, lo ha avuto un pomeriggio d’estate in campagna, dovevo avere all’incirca sette, otto anni. Con noi c’era mio padre.» annotava con la sua grafia minuta e nervosa, mentre sul muro scorrevano le diapositive senza che lei le osservasse.
«Ci stavamo avvicinando ad un gregge di pecore che sostava tranquillo dentro un recinto. Volevo accarezzare il muso di una di loro. Mio padre mi teneva la mano. All’improvviso la mamma è sbiancata, le era mancato il respiro. Allora lui mi ha lasciato per correre da lei, per stringerla a sé e domandarle se stava bene. Ha detto solo ‘Voglio andare a casa. Immediatamente’. Sembrava che mio padre avesse già vissuto questa situazione altre volte. Il suo volto era teso. Non mi teneva più la mano. Io ho guardato mia madre e non ho capito cosa era successo. Dopo quella volta ha avuto altri attacchi, ma nessuno lo ricordo nitido e vivo come quello. Poi col tempo ho imparato a prenderli come una cosa quasi naturale, come le grandinate improvvise d’estate senza preavviso. L’accompagnavo a sedersi, come avevo visto fare da papà. Le accarezzavo la mano. Lei stava in silenzio, un po’ tremava, scossa da qualcosa che non vedevo. Mi sorrideva per un attimo, ma era come se fosse dietro a un vetro appannato dal vapore. In quegli anni i suoi occhi erano spaventati, sempre. E io avevo tante domande senza risposte. Avevo paura e, da che ricordo, parlavo con mio padre, che mi guardava in viso e mi sorrideva sempre senza dire nulla. Io amo mia madre, ma l’ho sentita sempre distante e distaccata. Mentre elaboro questi ricordi, emerge un’altra sensazione forte, non scaturita da nessun episodio in particolare che possa ricordare. Ho avuto l’impressione che mia madre fosse terrorizzata dalle mie grida. I bambini gridano per le piccole gioie, come per le ombre che li attraversano. L’unica cosa che papà mi chiedeva era di non gridare e di parlare a bassa voce in casa».
L’accensione improvvisa di tutte le luci dell’aula riportò Michela alla realtà, alla lezione di arte rinascimentale, che era nel frattempo finita. L’insegnante stava riordinando le diapositive.
“Chissà da quanto tempo non ho più ascoltato” pensò riscuotendosi dalla concentrazione della scrittura. Guardò l’orologio d’acciaio che stringeva il polso. La lezione di letteratura italiana era nel palazzetto adiacente all’edificio antico dell’università.
Raccolse le sue cose e, percorsi i gradini che portavano al piano dove si trovava la cattedra, si voltò a vedere se aveva scordato qualcosa.
“Come farò ad avere gli appunti. Qui non conosco nessuno, accidenti”. Però quel pezzo di mosaico della vita spingeva dentro di lei per venire alla luce e non poteva ignorarlo, come aveva fatto per troppo tempo.

Capitolo 10

Brianza, venerdì 13 aprile 2006. Ore 10
La giornata del 13 aprile era splendida e tersa, dopo giorni di grigio e di pioggia. Era adatta per uscire dalla città e stare all’aria aperta.
Gli occhi di Silvia si posarono sul giallo dei campi di colza che abbracciavano la strada da entrambi i lati, mentre si era protesa verso Laura, che guidava con andatura tranquilla. Percepì l’impulso di sfiorarle la nuca. Nell’incavo del collo aveva intravisto quel giallo abbagliante che si univa ai verdi intensi delle piante primaverili e al bianco delle nuvole gonfie di vento. Gli stessi colori pulsavano in lei adesso per la semplice vicinanza di Laura. Avrebbe voluto baciarla, essere stretta dalle sue braccia, ma non era possibile. Doveva limitarsi per il momento ai sogni.
“Chissà come sarebbe stato lo stage di Young. Mi dispiace che tu non ci sia potuta andare. Come abbiamo detto a tutti, era una buona occasione per vedere al lavoro un grande trainer, e un metodo lontanissimo da quello italiano” così risuonavano le parole di Laura appena sovrastate dal rumore del motore. A Silvia di Young non importava nulla, ma di Laura sì. Oggi poteva starle accanto per l’intera giornata. Senza la presenza ingombrante di altre persone.
Lei le sorrise, pensando alla telefonata del giorno precedente, perché ricordava bene quello che le aveva detto. «Potrei dirti che ho seguito un desiderio improvviso, ma non sarebbe la verità. La verità l’ha detta il mio corpo che ribolliva tra le tue mani».
Erano queste le parole che aveva pronunciato, mentre pensava che, qualsiasi cosa venisse da Laura, le appariva come un grande dono da assaporare e da godere con lentezza, anche se erano solo pochi minuti e non una giornata intera come quella odierna.
“Silvia, non so se stiamo tenendo un atteggiamento corretto, ma soprattutto se io lo assumo nei tuoi confronti. Forse ti faccio del male” proruppe all’improvviso Laura rompendo il silenzio dell’abitacolo.
“Cosa dici, Laura? “ replicò Silvia impaurita, mentre cercava la mano di lei, che teneva fisso lo sguardo sulla strada come se il contatto non si fosse materializzato.
“Il male non sempre si fa con l’intento di nuocere” rispose pacata, mentre tentava di placare l’intimo subbuglio che diventava sempre più intenso e minacciava di traboccare dalla bocca.
“Non ti seguo” ribatté incerta e titubante come se il cielo si fosse oscurato all’improvviso e minacciasse tempesta “Ho voglia di provare i costumi per lo spettacolo, desidero stare con te nella tua casa sul lago. Sento che mi parlerà di aspetti che non conosco. Io ti ho vista solo in quell’aula o all’interno del teatro. Desidero la tua vicinanza, voglio assaporare il gusto della tua pelle, ascoltare le tue parole. Questo non è male. Non può essere il male”.
Mentre Laura cercava di domare il demone del desiderio, che si affacciava nella mente e ribolliva come un tino, sfiorò il viso di Silvia. Lei cominciò ad accarezzarle la mano con la guancia come il gatto che si strofina nelle gambe del padrone, finché non le strappò un sorriso. Rimasero mute in silenzio come se si fosse inaridita la fonte della parola.
Entrambe riflettevano su quanto era stato detto: ciascuna in maniera differente. Laura era incerta tra dare sfogo alla voglia di accarezzare quel corpo giovane e morbido e il senso di responsabilità che l’età doveva suggerirle. Silvia aveva l’angoscia nel cuore, perché le fantasie, suscitate dall’essere vicino alla donna che aveva alimentato i suoi sogni, sembravano svanire nel nulla. 
Questa sensazione di tensione aleggiava pesante tra loro e impediva di manifestare quello che percepivano e avrebbero voluto esprimere esplicitamente.
Però il silenzio e il turbamento cessò, quando il borgo, la meta del viaggio, apparve repentino dopo una curva, mentre uscivano da un piccolo bosco di querce e castagni nella campagna ondulata della Brianza. Come per magia scomparve ogni segno lasciato da una discussione lasciata a mezz’aria, mentre sui loro volti riapparve la serenità che il luogo trasmetteva.
Il lago splendeva in lontananza quando Laura si infilò in un dedalo di stradine antiche, che Silvia volle percorrere a piedi. A volte Silvia le sembrava una bambina con il viso solcato da ogni emozione, mentre lei le stringeva la mano con vigore ed affetto. Era il cruccio che le impediva di dare libero sfogo al nuovo aspetto della sua personalità, occultato per molti anni e ignorato dalle ipocrisie delle consuetudini consolidate. Una novità che interrompeva la monotonia di una esistenza costellata di sbalzi di umore.
In quelle vie strette e poco baciate dal sole c’era il negozio di costumi teatrali più ricercato dalle compagnie teatrali della Lombardia. Loro arrivarono in silenzio tenendosi per mano come due teneri amanti.
La proprietaria riconobbe immediatamente Laura, che conosceva di vista dai tempi in cui faceva la costumista teatrale, accogliendole affabilmente. Raccontò di aver aperto la sua attività da dieci anni in questo borgo lontano dalle strade di grande scorrimento e di non aver risentito dello spostamento da Milano. I suoi costumi e la sua competenza continuavano ad essere ricercati dalle compagnie sia professionali che amatoriali, che si spingevano fino lì alla ricerca del meglio.
“Cerchiamo i costumi delle protagoniste femminili per la rappresentazione di ‘Romeo e Giulietta’, che farò con i miei allievi del secondo anno tra poco meno di un mese” disse Laura con tono professionale e garbato.
“Che taglia?” chiese la costumista con una punta di incertezza mista a dubbio, perché le sembrava strano che venisse una persona sola a provare i costumi per le diverse interpreti.
“Li proverà lei, che è Nutrice” continuò Laura decisa e secca ritenendo inopportuno dare altre spiegazioni.
La proprietaria senza aggiungere altro andò nel retrobottega a prendere due costumi uno per Giulietta ed uno per Nutrice. Mentre avrebbero provato questi due, ne avrebbe cercati altri. Però era certa che sarebbe stata fatica inutile, perché li avrebbero scelti senza ulteriori prove. L’esperienza maturata in tanti anni e la conoscenza dei gusti di Laura le suggerirono che questi avrebbero messo in risalto la figura minuta e pallida della ragazza. Nell’attesa si domandò quale strano rapporto intercorresse tra le due donne tanto diverse per aspetto ed età. Però preferì conservare dentro di sé questo quesito, perché era donna di teatro.
Silvia entrò nel camerino con un abito blu di broccatello, si tolse i jeans e la canotta, rimanendo con le sole mutandine. Sentì alle sue spalle una presenza che le accarezzava la nuca con la lingua, mentre le mani si posavano sul suo corpo. Attese un attimo per gustare queste sensazioni e poi si girò delicatamente. La guardò in silenzio con gli occhi che scintillavano di piacere mentre percepiva il desiderio crescere dentro di lei. Avrebbe voluto essere già alla casa sul lago, ma doveva ancora attendere.
“Come va?” chiese la proprietaria che stava davanti al mucchio di costumi da provare.
Laura senza rispondere chiuse la lampo sulla schiena di Silvia, che sorrise maliziosa. Uscirono silenziose dal camerino. L’abito faceva risaltare la pelle chiara della ragazza. Il taglio impero le sottolineava e valorizzava il seno. Era semplicemente perfetta. L’effetto era esattamente quello atteso, come aveva previsto la donna, quando lo aveva scelto.
“Che sto facendo? Potrebbe essere mia figlia” si disse Laura, mentre un pensiero doloroso le attraversava la mente. Di nuovo stava combattendo dentro di sé la battaglia che era stata sospesa all’apparizione del borgo. Guardò Silvia che le sorrideva con una grazia, che non aveva mai avuto prima di allora, piena di luce e di serenità e si rincuorò, ricambiando il sorriso.
“Ora il costume della nutrice, il tuo, mia saggia Nutrice“ disse con voce leggera e sonora Laura per interrompere quel flusso di pensieri malevoli che aleggiavano minacciosi nella testa.
La scollatura arricciata dell’abito esaltava il piccolo seno di Silvia e la linea semplice seguiva i suoi fianchi. Lei si sentiva per la prima volta nella sua vita una giovane e bellissima donna, come mai le era capitato fino a quel momento. Però quello che la gratificava era lo sguardo dolce e affettuoso di Laura.
La proprietaria era soddisfatta perché aveva intuito cosa cercavano e ripose con cura nelle loro custodie i ricchi abiti di Giulietta e della Nutrice. Laura saldò il conto, mentre percepiva nettamente lo sguardo curioso della costumista su di loro. Però era una donna di teatro, dove la libertà e la capacità di non restare in un ruolo prestabilito erano valori condivisi. La proprietaria uscì dal bancone per salutarle e le baciò sulle guance, come si usa nell’ambiente, mentre Laura stringeva la mano di Silvia. E uscirono coi pacchi a dondolare sulle loro gambe, seguiti dallo sguardo malizioso della costumista, che non era stata tratta in inganno.
La casa non era molto distante appena fuori dal paese e, pochi minuti dopo, il lago splendeva davanti a loro illuminato da uno scintillante sole di aprile.
Silvia lo vedeva attraverso il finestrino ed assaporava ogni sfumatura della luce che increspava la quiete dell’acqua. Le pareva che Laura fosse tornata ad essere serena accanto a lei, mentre la vedeva sorridere teneramente. Questo dissipò ogni turbamento provato in precedenza. Adesso si sentiva tranquilla perché il senso delle parole dette poco prima le parevano solo il frutto della sua immaginazione.
Arrivarono davanti ad una casetta bianca, semplice ed isolata, circondata su due lati da un fitto faggeto. Il prato prospiciente l’ingresso era ben curato con macchie di rose che stavano fiorendo.
Questa, pur non essendo abitata con continuità, era sempre linda e pulita, perché una donna del paese aveva ricevuto l’incarico di eseguire le pulizie con regolarità tutte le settimane, come se Laura dovesse venirci il giorno dopo. Nella giornata precedente aveva telefonato dandole le istruzioni di rigovernare con cura le stanze, preparare il letto e riempire il frigo con quanto sarebbe stato necessario per un breve soggiorno. Era intenzionata a fermarsi da sola o con Silvia per il week end  per riflettere con calma su se stessa, su Mattia, su Michela, su tutto il resto che ruotava nel suo mondo.
Entrando erano state accolte da una sensazione di ordinato, di pulito come se la casa fosse abitata. Una vasta stanza con il camino in un angolo e la cucina a vista dalla parte opposta era la prima visione che era apparsa a Silvia, mentre una scala in legno portava al soppalco, dove troneggiava un letto matrimoniale.
Laura aveva scelto come arredo mobili rustici di legno e tappeti etnici. Silvia si soffermò a lungo davanti ai calchi di maschere greche, alle maschere africane di legno, a quelle della commedia dell’arte.
“Chissà quanti pezzi hai …” iniziò Silvia stupita per la quantità e la varietà di maschere appese alle pareti ed in ogni dove.
“Non ne ho di maschere a casa.” la interruppe subito Laura per troncare domande imbarazzanti sulla sua vita “Qui c’è l’intera collezione che è più o meno come quella prima di sposarmi. Qualche pezzo è dono di mio marito, ma quando ha smesso di viaggiare, non ho più aggiornato la mia raccolta”. Però non riuscì a dissimulare nel viso e nella voce la tensione che l’argomento le provocava.
“Cosa è successo, Laura?” chiese titubante Silvia, come se avesse il timore di aprire un cesto del quale ignorava il contenuto.
“Ho avuto un grave crollo nervoso durante la gravidanza e dopo la nascita di mia figlia. Michela è stata allevata dal padre, anche se io nominalmente sono la madre. Io non sono quella donna che ho voluto mostrare, per non mandare in pezzi la mia vita esteriore composta da marito e famiglia”.
Sottolineò queste parole con un sorriso pieno di dolore e proseguì che la maternità, non voluta, aveva trasformato l’amore per Mattia in rancore sordo mai dissimulato nonostante che lui la colmasse di attenzioni. Era la prima volta che confessava le proprie debolezze con sincerità.
”Come ti ho detto, non è stato un desiderio improvviso quello che ho provato per te. E’ che tu mi hai permesso di far emergere quella parte del mio essere, nascosto e mai conosciuto. Io l’ho sempre ignorato”.
Le sorrise dolcemente stringendole la mano. Silvia si senti obbligata a spiegare come si fosse sentita attratta da lei. Non c’era stato un motivo particolare, ma aveva compreso dopo avere perso la verginità che il suo mondo interiore voleva la vicinanza al femminile.
“E’ come se un raggio improvviso di sole avesse squarciato le tenebre della stanza, facendoti vedere che questa non era come l’avevi immaginata” proseguì con tono caloroso “In ugual misura ho capito che era una donna quello che desideravo”.
Aveva percepito che la sua vita era vuota come un guscio privato del corpo interno, così aveva cercato in Laura aiuto e protezione, amore e desiderio per colmare quello che mancava dentro di lei. Aveva sentito a poco a poco che la loro vicinanza si stava trasformando in qualcosa di diverso, finché non ebbe la certezza dei sentimenti durante il loro incontro di qualche giorno prima.
Erano al centro della stanza e si fissavano con intensità pronte ad esternare le loro sensazioni, ma Laura si sentiva in dovere di spiegare, di precisare, di rendere manifesto quello che in tutti questi anni aveva trattenuto dentro di sé.
“Sto maturando l’idea di andare via da casa, di separarmi da mio marito, di pensare a me stessa con una visione differente della mia vita. E questo anche nel campo dei sentimenti”.
Era consapevole che l’abitazione in cui viveva le andava stretta in senso figurato, mortificava la sua creatività, si sentiva prigioniera di un cliché, che era estraneo alla sua personalità. Tutto le costava fatica e ansia, mentre con sempre maggiore fatica teneva a bada il demone che la stava divorando a poco a poco.
“Percepisco che ho delle colpe verso di lui, e soprattutto verso mia figlia, che ha più o meno la tua età. Entrambi mostrano affetto verso di me, che non riesco a ricambiare. Intuisco che devo stare da sola coi miei pensieri e le mie emozioni per ritrovare la calma che in questi anni ho smarrito. Devo riflettere in solitudine lontana da tutti e da tutto. Però non temere, un posto per te ci sarà sempre dentro e accanto a me”.
Silvia abbracciò Laura che cominciò a piangere per la gioia.

..segue ..

7 commenti:

Unknown ha detto...

eccomi, eccomi! Sto ripercorrendo le fatiche di Ercole con questi cambi di blog! :-)
bello lo sfondo che hai scelto!

Newwhitebear ha detto...

E' stato un po' faticoso ma alla fine l'ho trovato gradevole

Anonimo ha detto...

Non ho ancora capito se parli di te o se racconti storie d'altri

Anonimo ha detto...

bellissima storia..mi piace il tuo stile e sono ben felice di averti scoperti girovagando tra i blog :)

Unknown ha detto...

bella paggina dolce sera a te <3

Unknown ha detto...

grazie della visita al mio dolce notte ma voglio tuo scritto <3

Unknown ha detto...

ma percke` mai mi lasci comenti ..buona domenica <3